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Sanità & Ricerca

L’ospedale che sa parlare ai bambini malati oncologici

Grazie all'intervento dell'associazione Ageop, il reparto di oncoematologia pediatrica del Malpighi è diventato un modello

di Gabriella Meroni

Ricevere una diagnosi di cancro che riguarda un figlio è sempre un trauma. Ma il “come” si scopre questo evento, e come si è aiutati a comprenderlo ed elaborarlo fa la differenza, influenzando il benessere e quindi anche l’efficacia delle terapie.

Si chiama “comunicazione empatica” e riguarda sempre più le informazioni mediche trasmesse dai sanitari ai pazienti: usare le parole giuste, mettersi nei panni degli altri, evitare i tecnicismi, dare del tempo per e “sfogarsi” sono pratiche che oltre ad avere un impatto positivo sul clima dei reparti, diventa parte integrante della cura. «Un approccio empatico e attento alla persona, prima che al malato è decisivo», conferma la dottoressa Ilaria Puglisi, psicologa dell’associazione Ageop, che al Policlinico S. Orsola-Malpighi di Bologna è pioniera in questo settore. «Un’intuizione che nel nostro reparto di Oncoematologia Pediatrica risale agli anni 80 e che oggi si è tradotta in un lavoro multidisciplinare che coinvolge medici, infermieri, psicologi e volontari».

Un vero e proprio caso di eccellenza, quello di Bologna, che prevede per ciascun bambino ricoverato con una diagnosi di cancro o un sospetto diagnostico un percorso personalizzato che tiene conto delle esigenze
sue e della famiglia, a 360
gradi:

«Un’équipe appositamente formata svolge una “indagine psicologica” attraverso colloqui, per inquadrare i bisogni del paziente e del nucleo familiare», continua la dottoressa, «e in base ai risultati offre un serie di servizi».

Il tutto senza fretta, dando tempo all’ascolto e al dialogo: gli psicologi sono presenti quando alla famiglia viene comunicata la diagnosi, durante il percorso delle terapie e anche dopo la dimissione, qualunque sia il futuro del paziente: la strada verso la guarigione o quella del fine vita. Un lavoro di cui si avvantaggiano anche i sanitari («avere a che fare con un bambino sereno, che ha meno paura del dolore, è utile a tutti») e che “contamina” gli operatori del reparto: «I medici, che non hanno una formazione psicologica specifica, lavorando con noi hanno imparato a essere meno distanti e a usare un linguaggio più “caldo”», nota ancora Puglisi.

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L’esperienza del Malpighi non sarebbe stata possibile senza la tenacia dell’associazione Ageop (che aderisce alla rete Fiagop), fondata dall’ex primario del reparto di Pediatria, professor Guido Paolucci: nel 1979, reduce da un viaggio negli Usa, intuì che «un medico da solo non può sconfiggere il cancro».

«Nacque così il coinvolgimento di noi genitori», ricorda la responsabile Area Assistenza di Ageop, Francesca Testoni, «che ha portato, nel tempo, alla creazione di un nuovo modello di oncologia pediatrica». Con una parola d’ordine: la qualità della comunicazione è direttamente proporzionale alla disponibilità di risorse. In pratica, se i dottori sono pochi, avranno poco tempo per parlare con i pazienti. «Per questo la nostra associazione oggi retribuisce un terzo dei medici dell’Oncoematologia Pediatrica, 2 psicologhe, 5 ricercatori e 4 mediatori culturali».

Non poco, in un reparto che dispone di 17 posti letto e cura 30 bambini al giorno in Day Hospital per un totale di 250 pazienti l’anno (di cui 60 nuove diagnosi). «Abbiamo innescato un circolo virtuoso», conclude Testoni, «fatto di ascolto, comunicazione e attivazione di risorse. E i risultati si vedono: i bambini sono più sereni, ed è questo quello che conta».


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