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Festival della fotografia etica, l’intima attualità del sociale

Nel fine settimana si chiude a Lodi uno degli happening artistici più importanti che uniscono fotografie e sociale. Ecco i sorprendenti lavori che si possono trovare, raccontati dal docente e filosofo Marco Fumagalli

di Marco Fumagalli

Frammenti di cocente attualità. Temi sociali ormai canonici, ma non per questo meno vivi e urgenti. E poi elementi di riflessioni dal carattere più assoluto, sulla vita, sulla morte, sulla sofferenza, sulla felicità. Questi fili si incrociano e costituiscono la trama del Festival della fotografia etica, in corso a Lodi fino a domenica 30 ottobre 2016. Fili che possono dunque condurre il visitatore in itinerari molteplici tra i diciotto progetti fotografici esposti nelle sei sezioni del festival, distribuite in sette sedi nel centro della cittadina lombarda. Una vera abbondanza di materiale fotografico, se si considera la contemporanea apertura di altre trentasette esposizioni comprese nel Circuito Fuori Festival. Il denominatore comune dei progetti esposti – esplicitato dal sottotitolo del festival Quando la fotografia parla alle coscienze – è dunque quello di parlare del reale al pubblico, senza omissioni, facendo appello a uno sguardo consapevole ed eticamente più orientato. Compito evidentemente non semplice, che mette così alla prova le possibilità stesse di forza ed efficacia del linguaggio fotografico, storicamente uno dei più impiegati per testimoniare le pieghe della realtà.

È in primo luogo l’attualità dei fatti in corso, in veloce movimento, talvolta non ancora elaborati a livello di un discorso interpretativo definitivo, lo spazio d’azione di molta fotografia di indagine, rappresentata al festival da progetti notevoli: Suburbia di Arnau Bach, ad esempio, è un viaggio nei ghetti periferici di Parigi; una corsa, più che un viaggio, condotta appunto attraverso scatti rapidi, dominati da un movimento incessante e quasi rubati allo svolgersi frenetico e sfrangiato della vita di quelle strade. Ne deriva l’idea di una realtà fluida, non strutturata in categorie stabili, dove molto accade ancora in maniera episodica e incontrollata. Anche il brasiliano André Liohn, nel suo lavoro Revogo, illumina con il flash delle propria macchina fotografica schegge, alcune di una crudezza che ferisce, della violenza che dilaga tra gruppi di giovani brasiliani.

Where the children sleep del fotografo Magnus Wenmann mantiene l’obiettivo sulla realtà più attuale: la condizione dei profughi – giovani e bambini – in fuga dalla Siria. Originale e molto efficace la scelta della prospettiva di rappresentazione, più mediata e riflessiva dei due casi precedenti: i volti dei bambini sono ritratti mentre dormono, o cercano di dormire, chi per terra, chi per le strade di una città occidentale, chi nel letto di un centro di accoglienza o di un appartamento. I loro occhi e le loro espressioni rivelano molto di loro. Le didascalie dell’autore completano il progetto, dando conto delle storie di ognuno, e persino dei loro incubi e pensieri notturni ricorrenti («Fatima sogna di cadere dalla nave»). L’effetto è quello di una personalizzazione del fenomeno della migrazione, fatto di storie, di paure e di speranze umanissime. A questo progetto si può affiancare quello dell’iraniano Sadegh Souri, Waiting Girls, che indaga il tema della carcerazione femminile nel proprio paese di origine, tra casi di detenzione minorile e storie destinate a concludersi con la pena di morte. Anche in questo caso, nonostante l’urgenza di rappresentazione del tema, l’autore sceglie di sostare attraverso le immagini e le parole sulle singole storie esemplari, associando alle immagini in bianco e nero (che bene sottolineano il monocromatismo degli abiti neri imposti alle donne) didascalie che presentano le donne ritratte. Di alcune vediamo le figure intere sullo sfondo del carcere, di altre osserviamo alcuni particolari minimi: le mani che stringono i vassoi del pasto, i piedi infilati in esili calzature. Il lavoro di Sadegh Souri ha meritato il primato nella sezione Short Story Award, e un posto di rilievo in questa edizione del Festival della fotografia etica, che ha assunto uno dei ritratti a copertina di tutta la rassegna.

Accanto a queste materie così centrali nel farsi quotidiano della storia sociale e politica, altri progetti esposti nel festival pongono l’attenzione su argomenti meno caldi a livello di cronaca, ma non meno importanti a livello sociale e umano; interessante la linea di indagine che torna su quelli che furono i teatri della storia nei decenni scorsi, osservando esiti ed effetti di questi passaggi. Si tratta di racconti più distesi, anche mediati da scelte formali significative. Si consideri la modulazione della luce, bianca e soffusa, nelle fotografie di Days of nights – Nights of days della fotografa russa Elena Chernyshova, dedicato alla vita quotidiana degli abitanti di Norilsk, città nell’estremo nord della Russia, fondata come un gulag sovietico e poi convertita, nelle intenzioni, a modello ideale di centro minerario e industriale. È una luce algida quella dell’esterno, filtrata dalle nebbie gelate e dai fumi inquinanti delle industrie, e lo è altrettanto quella artificiale degli interni, squallidi quelli privati e aderenti alla magniloquente sintassi architettonica sovietica quelli pubblici. Domina la freddezza in questi scatti, e nulla del calore, fisico e astratto, necessario alla vita hanno tenuto in conto gli estensori del progetto della città prigione e fabbrica Norilsk. È interessante infine osservare come ancora gli effetti della luce siano impiegati in un altro progetto dedicato alla Russia, Pobeda del fotografo italomarocchino Karim El Maktaf, che indaga il dietro le quinte e il contesto delle celebrazioni annuali della vittoria sovietica sui nazisti (fatto oggetto del lavoro è in particolare il recente settantesimo anniversario). La scenografia allestita vede l’ostensione di bandiere e simboli sovietici e l’esibizione delle storiche divise verde militare con appuntate numerose stelle rosse. L’illuminazione delle immagini è condotta a ricercare un effetto di luce soffusa, tenue, come quella delle vecchie fotografie istantanee: un linguaggio che cita dunque il passato, per rappresentare una parata che nel 2015 appariva ampiamente datata nel suo copione e superata dalla storia nei suoi linguaggi.

Per questa via, completando le coordinate in cui si inseriscono i lavori proposti nel festival, si giunge ad alcuni progetti che partono dalla realtà non tanto con un intento cronachistico, quanto per avviare riflessioni più assolute. È questa l’intenzione alla base soprattutto di A Life In Death, la narrazione che la fotografa Nancy Borowick fa della vicenda dei suoi genitori, entrambe e contemporaneamente ammalati di cancro. Ne deriva un vero e proprio romanzo fotografico, intimo e calorosamente intenso, per quanto inevitabilmente doloroso, di cui le singole fotografie sono i capitoli. Il lavoro, ampio ed opportunamente esposto in una sede dedicata, raggiunge in alcuni passaggi una profondità tale da farne – anche per effetto dell’assolutezza coloristica dei bianchi e dei neri – una sorta di meditazione sulle idee stesse della vita, della morte e degli affetti.

E di una nuova riflessione, sul tema del potere politico, si potrebbe parlare nel caso di Political theatre, di Mark Peterson. Il lavoro è dedicato alle occasioni di visibilità pubblica dei candidati alla presidenza statunitense negli ultimi due anni. Gli scatti tendono a indagare la prossemica e il modo “di andare in scena” delle diverse personalità, e indugiano su sguardi, smorfie e posture, con zoom puntati su labbra contratte e denti digrignati; anche i sostenitori e gli spettatori dei dibattiti sono ritratti per particolari: spille di ogni sorta appuntate su giacche e giubbotti, cravatte con motivi stars and stripes annodate sotto colli rugosi che tradiscono l’età avanzata. Queste inquadrature, assecondate da un’illuminazione delle immagini che attinge al campo teatrale, sembrano dunque sfuggire dalla contingenza, e tendere a un approfondimento più assoluto sulla prossemica e sul mostrarsi del potere. Si potrebbero leggere in questo modo anche molte delle immagini di The Heavens, annual report, progetto dei fotografi Paolo Woods e Gabriele Galimberti, i quali aprono interessanti punti di osservazione sui paradisi fiscali e sul loro funzionamento. Tra uffici dal design moderno affacciati su spiagge caraibiche, sedi fittizie di società piccole e grandi, spiagge affollate da un turismo a cui si offre una versione più popolare e kitsch della “bella vita”, piscine poste all’ultimo piano dei grattacieli, questo viaggio conduce l’osservatore in un mondo di benessere eccessivo, artificiale e, talvolta, effimero. Questo filo tematico, intrecciandosi e reagendo per contrario con gli altri ospitati nelle sezioni del festival, consente di chiudere in maniera circolare la riflessione, mettendo in luce la misura e la gravità delle disuguaglianze e delle sperequazioni che causano molti dei fenomeni posti sotto gli obiettivi dei fotografi raccolti in questa edizione.


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