Welfare & Lavoro

Rammendare le periferie non basta

Dopo il caso Milano si riapre il dibattito sulle periferie. L’intervista all’antropologo e architetto Franco La Cecla. «È l’idea stessa di periferia che va eliminata. Perché figlia di un’urbanistica che si è dimenticata di essere una scienza umana e ha affidato i suoi destini ai tecnici»

di Marco Dotti

Che cosa sono le città?, si chiedeva Shakespeare. E la risposta, per lui, era semplice: gente. Le città non sono altro che gente. Le città sono essenzialmente il luogo in cui si gioca la convivenza umana.

Sono il luogo in cui, nonostante tutto — nonostante terrorismo, stress, paura e crisi — le persone riescono a trovare un modo per convivere.

Ma le città non si salveranno dalla catastrofe sociale e dal mutamento che avanza, ci spiega Franco La Cecla, se non cambieranno la loro idea di periferia. E, di conseguenza, la loro idea di centro. Anzi, aggiunge La Cecla, antropologo e architetto che insegna alla Naba di Milano e ha da poco pubblicato un avvincente saggio, Contro l’urbanistica (Einaudi), forse è proprio l’idea di periferia che deve essere cancellata. A tutto vantaggio di un altro sguardo, che ricollochi al cuore della città — il cuore come un centro diffuso — l’uomo e le sue pratiche di relazione. Con gli altri e con gli spazi che, in comune, abitiamo.


Professor La Cecla, dobbiamo sbarazzarci delle periferie?
Dobbiamo sbarazzarci di un’idea. Chi parla di periferie spesso lo fa partendo da un pensiero sbagliato, un errore di fondo che compromette anche le migliori intenzioni. Le periferie sono il pensiero sbagliato di un’urbanistica che ha mitizzato la condizione operaia, ma le ha negato il centro della città.

Quindi l’errore sulle periferie non è formale, ma di sostanza…
Esattamente. Non si tratta — o, almeno, non c’è solo questo — di cattiva qualità degli edifici, di pessima progettazione e via discorrendo. La periferia contiene in sé un’idea pericolosa, facilmente mitizzabile, pensiamo ai tanti discorsi pietistici sugli slums , o strumentalizzabile, per esempio lasciando intere parti di città in una situazione di perenne emergenza. Se le periferie ci devono interrogare, devono interrogarci alla radice, nel profondo.

Si tratta di far uscire questi spazi dall’emergenza, quindi?
Le periferie non bisogna, come dice il mio amico Renzo Piano, “rammendarle”. Le periferie bisogna eliminarle. Un errore così grosso non può essere “aggiustato”, né migliorato. Sono luoghi, le periferie, a tal punto stigmatizzati che anche migliorandoli non se ne può cambiare la valenza.

Proprio da questi “luoghi”, ossia dalla periferia, arrivano però altri pensieri. Le cosiddette periferie sono vive, spesso più di tanti presupposti “centri” (amministrativi, finanziari, intellettuali)…
Si tratta semplicemente di uscire da un pensiero che ritarda una presa d’atto necessaria, che è poi quella che ci dovrebbe spingere a ripensare la cittadinanza dei luoghi. Oggi è questa la sfida: innervare la cittadinanza nei luoghi e nelle pratiche. Molti credono ancora possa esistere una residenza come funzione separata dall’abitare in una città. Chi abita una città, al contrario, vive la città, “è” la città. Per questo, vedo speranze in un futuro che va nella direzione di città riidentificate, dove la gente torna al centro. Proprio per questo, l’urbanistica non va lasciata nelle mani dei tecnici. L’urbanistica è una scienza umana, non un apparato tecnico-burocratico, ossia una disciplina che ha bisogno di tutti gli strumenti di osservazione della realtà sociale. Ma, di certo, non ha bisogno di tutte le formulette inventate dagli urbanisti negli ultimi cinquant’anni. L’urbanistica si è data un tono di essere una tecnica, invece è una scienza umana che si è dimenticata di essere tale. Ma prima ancora di prescrivere, l’urbanistica dovrebbe avere, soprattutto, la capacità di osservazione. E se ricominciasse a osservare comprenderebbe che è a tutt’oggi un miracolo che, nelle società occidentali, dove l’individualismo impera, la gente trovi nonostante tutto un modo di convivere.

Oggi, ripartire dalle periferie può significare questo: sbilanciare l’egocentrismo sociale…
Può significare che dobbiamo farla finita con le periferie e ripensare la città non a misura di urbanista, ma a misura di urbanità. L’urbanità è una dimensione olfattiva e visiva, tattile e materiale, non una mera congettura. La ritroviamo nei mercati di strada che sono una forma importantissima di convivenza, convivialità e relazione. E, non a caso, spesso sono avversati da regimi politici di varia natura, in tutto il mondo, ma anche da un’ideologia da world city che, per fare spazio alle proprie manie di grandezza e alla propria immagine da cartolina, distrugge la forza viva delle relazioni nei luoghi.

Il cibo, in questo caso, non è solo esposto, ma praticato. Nei mercati torna a essere relazione, di dono e di scambio…
Io credo che una città sia definita proprio dalle occasioni pubbliche di cibo che offre. Questo perché il cibo venduto e cotto per strada è una chiave dei luoghi. Il cibo come convivialità istituisce un paesaggio fatto di ritmi quotidiani-urbani. Non solo la vitalità, ma l’economia informale e la rete solidale che nascono attorno alla presenza del cibo per strada sono un tratto importante dell’urbanità. Pensi a quanta gente vive, grazie a ciò che trova o compra nei mercati, con dinamiche spesso informali di credito, baratto, scambio… La Fao, recentemente, ha fatto un convegno sui mercati di cibo di strada e ne è emerso, dati alla mano, che l’economia o, meglio, le economie formali e informali che si diramano attorno al cibo e ai mercati di strada sono importantissime. Importantissime perché, da un lato c’è un tramite diretto tra il mondo dei produttori e quello dei consumatori, dall’altro si è constatato che dove si uccidono i mercati di strada, crescono la miseria, l’impoverimento e la città degrada, perché non viene vissuta, ma subita.


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