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Ventimiglia, i diritti dei migranti non devono restare inascoltati

L'associazione WeWorld presenta - il prossimo 18 novembre - all'università di Bergamo i risultati del progetto "Migranti in Transito". Realizzato a Ventimiglia dal 1° luglio al 15 ottobre, l'iniziativa ha visto coinvolti circa 400 migranti. «L'obiettivo del progetto», dice Elena Caneva, coordinatrice del centro studi advocacy dell'associazione, «è stato quello di spiegare ai migranti che loro hanno dei diritti che possono e devono far valere»

di Anna Spena

Ventimiglia. Ormai il nome non riporta più al mare, ma a chi, rischiando la vita il mare l’ha attraversato su un gommone, in fondo solo per averla – dignitosamente – salva. Quello che però a volte i migranti trovano dopo il Mediterraneo ha poco a che fare con la dignità. Per questo motivo l’associazione WeWorld lo scorso primo luglio ha dato il via la progetto “Migranti in transito” – in collaborazione con l’associazione locale Popoli in Arte – per aumentare la consapevolezza dei migranti rispetto ai loro diritti.

Quello di Ventimiglia, comune ligure in provincia di Imperia, è un caso particolare che ha visto nel corso degli ultimi mesi – centinaia e centinaia di migranti – letteralmente accamparsi nei giardinetti della stazione, sulle rive del fiume Roia, tra le scogliere del lungomare. Migranti che sono aumentati in maniera considerevole dopo la chiusura delle frontiere di Francia ed Austria.

Il progetto Migranti in Transito si è concluso lo scorso 15 ottobre. «La durata è stata di circa due mesi e mezzo», dice a Vita.it Elena Caneva, coordinatrice del centro studi advocacy di WeWorld. «I migranti convolti sono stati circa 400: minori non accompagnati, donne, uomini. Tutti quelli che abbiamo potuto raggiungere, senza fare distinzioni. La città di Ventimiglia ha due punti di frontiera verso la Francia. Qui i migranti arrivano soprattutto con il treno, per questo è proprio la stazione il punto privilegiato per intercettare i migranti in transito o in sosta».

L'iniziativa, che sarà presentata il prossimo 18 novembre durante Convegno Internazionale Inclusione all’università di Bergamo – dedicato quest’anno ai migranti a scuola – è un modello che può e deve essere replicato. «Abbiamo lavorato principalmente in due direzioni», continua Elena Caneva. «Attraverso contatti uno ad uno – attraverso la relazione – e realizzando momenti, incontri collettivi nella chiesa di S. Antonio. Delle vere e propri assemblee dove abbiamo cercato di spiegare ai migranti che insieme ad una prima accoglienza che prevede cibo, acqua, cure, vestiti, un letto, i loro bisogni non si fermano qui»

«Hanno soprattutto bisogno di capire come proseguire, quali sono i loro diritti, a chi possono chiedere. Sono persone diverse tra loro, che scappano da guerre, persecuzioni, dittature e grandi povertà. Quando arrivano in Europa hanno perso tutto quello che avevano affidandosi spesso a trafficanti di esseri umani senza scrupoli. E quei diritti che hanno si devono far valere. La cosa di cui hanno realmente bisogno sono le informazioni legali: quasi a tutti viene negato di varcare il confine, l’unica cosa che vogliono è ottenere il ricongiungimento familiare. Ecco noi abbiamo provato a spiegare loro che il ricongiungimento familiare è un diritto».

«L’arrivo in Italia», dice Marco Chiesara, presidente di WeWorld, «non comporta affatto l’inizio di un viaggio sicuro. Finito quello della violenza dei trafficanti ne comincia un altro, fatto di controlli, centri di accoglienza, attese e speranze. Di sicuro ancora tanta sofferenza. Come cittadini europei dobbiamo saper dare agli uomini, alle donne, ai bambini ed alle bambine che sono giunti fino a noi delle risposte. Anche se non tutti rimarranno in Italia o avranno diritto di rimanerci secondo le nostre leggi. In attesa che una risposta complessiva venga data da programmi di sviluppo nei paesi di origine dei migranti, da azioni per porre fine a guerre spaventose e povertà estreme, in attesa che ci siano regole più condivise per le migrazioni regolari a livello europeo, dobbiamo prima di tutto mostrarci umani con chi soffre ed ascoltare le loro richieste».


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