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Dieci autori raccontano le storie degli “Invisibili”

Viene presentato a Treviso il libro realizzato dal Centro della Famiglia e dalla Comunità di Sant'Egidio trevigiana che sosterrà un progetto a favore dell'inserimento sociale dei senza dimora. Sabato 17 dicembre saranno premiati gli studenti del Liceo Artistico che hanno realizzato le immagini che illustrano il volume grazie al concorso "Non chiamatemi barbone"

di Antonietta Nembri

Dieci scrittori per nove storie “invisibili” racchiuse in un libro che Moni Ovadia suggerisce divenga “un livre de chevet”, da tenere sul comodino «da aprire e sfogliare di tanto in tanto per guardare oltre l’angusto orizzonte della propria autoreferenzialità». Il volume è parte di un progetto dedicato ai senza dimora di Treviso portato avanti insieme dal Centro della Famiglia e dalla Comunità di Sant’Egidio della città veneta. Come spiega il responsabile della Fondazione Centro della Famiglia, Adriano Bordignon, con il libro «si è cercato di dare voce a quanti troppo spesso risultano invisibili». Ma il progetto non si ferma alla realizzazione del volume: tutti i proventi del libro serviranno a realizzare un percorso di reinserimento lavorativo per i senza dimora e le famiglie indigenti attraverso gli “Orti sociali” «la nostra vuole essere un’idea di generatività perché gli orti non sono solo per i senzatetto, ci saranno altre persone e altri soggetti, attraverso la produzione queste persone potranno avere una prospettiva di empowerment e di connessione sociale»

Sabato 17 dicembre all’Auditorium Santa Caterina di Treviso è in programma la presentazione del libro “Invisibili” e la premiazione del concorso “Non chiamatemi barbone” perché a partire dalla copertina tutte le illustrazioni raccolte nelle pagine sono opera degli studenti del liceo artistico statale cittadino. «Volevamo rendere visibili gli invisibili e coinvolgere in questo nostro progetto gli studenti che hanno risposto con entusiasmo». Oltre 250 le opere presentate.

Ma come nasce l’idea di realizzare un libro? È ancora Bordignon a spiegare «Se per Sant’Egidio il tema dei senza dimora rientra nella continuità del loro agire. Per la nostra organizzazione che si occupa anche di formazione sociale e pastorale delle famiglie sta diventando sempre più rilevante la cura di una dimensione comunitaria che abbia a cuore anche chi è posto ai margini della comunità, locali e non». Da qui le esperienze dei pranzi comunitari domenicali con i senzatetto «nella nostra sede e con le nostre famiglie condividiamo il brunch della domenica, quando per molti senza dimora è difficile reperire un pasto perché le solite mense sono chiuse». Conoscersi, condividere il pasto è stato il primo passo per arrivare a decidere di far conoscere otto storie vere e per raccontarle «abbiamo chiamato degli scrittori e giornalisti locali perché incontrassero senzatetto o ex senzatetto di Treviso», continua Bordignon.

E il risultato è un volume che racchiude i testi di Toni Frigo, Lorenzo Bazan e Francesco Dalto, Raffaele Milite, Fulvio Ervas (autore di “Se ti abbraccio non avere paura”), Mauro Favaro, Gian Domenico Mazzocato, Paolo Malaguti (in concorso allo Strega con “La reliquia di Costantinopoli”), Norma Follina e Francesca Gagno. Disseminate tra le pagine le tavole delle sei finaliste del concorso “Non chiamatemi barbone”, sezione bianco e nero, mentre la copertina riporta il disegno dal titolo “Nei miei panni” di Martina Agostini, vincitrice della sezione “colori”.

Le nove storie, otto contemporanee e una “storica” (“Bepiòcia”, il barbone del racconto di Toni Frigo), raccontano le vite di uomini e donne, italiani e non, che si sono perse e a volte ritrovate. I racconti sono un salto nei pensieri, nelle riflessioni, nella solitudine e nell’oblio cercato e voluto, a volte subito di chi ha visto la propria vita travolta dall’onda di piena della crisi, o della tossicodipendenza. «I barboni/clochard raccontati in questo libro» si legge nella prefazione di Moni Ovadia «sono caduti nella dura condizione in cui vivono a causa di un mondo che ha perso ogni connotato poetico, ogni orizzonte lirico. È un mondo cinico, spietato con chi ha la ventura di perdere lo status di censo, per sventura, per le crisi cicliche, per una malattia o per la perdita della famiglia». Osserva ancora Ovadia «se la “caduta” che li trascina ai margini del vivere nel mondo mainstream è crudelmente prosaica, sorprendentemente poetica è la loro fragilità e ancora di più lo è la speranza che sanno conquistare a partire dalla disperazione»

C’è la storia di Bassirou un giovane senegalese di Casamace raccontato da Lorenzo Bazan e Francesco Dalto in “Una nuova casa?”. Nelle sue parole l’assurdità di chi ottiene il permesso di soggiorno per motivi umanitari e da un giorno all’altro deve lasciare il luogo che lo ha ospitato fino a quel momento e cercare rifugio nei dormitori dei senza dimora. Una storia di speranza e fiducia, nonostante tutto. E quella di una donna filippina il cui obiettivo migratorio di ricerca del benessere si è bloccato nel momento in cui ha perso la salute. Nel racconto “Vangelo secondo Izabel” di Raffaella Milite le parole di Izabel sono dirette e allo stesso tempo piene di speranza e di luce – quasi a cancellare la cecità che l’ha colpita – «Non sarà una buca davanti a casa a impedirmi di uscire, conterò i passi meglio questa volta e saprò muovermi anche nel buio. Perché io ormai, lo so che la paura si può sconfiggere, accendendo una luce con una preghiera»: queste le parole conclusive del racconto della sua vita.

Certo non c’è solo speranza e fiducia, come in “Passerà” il racconto di Norma Follina che parla di Valerio la cui storia e il suo lento scivolare ai margini fino a farsi invisibile anche alla famiglia – «potrebbe trasformarsi nella storia di ognuno di noi» come scrive l’autrice. “Bruna”, invece nel racconto di Malaguti è una donna che dopo il fallimento del matrimonio, il ritorno a casa dai genitori e la perdita del lavoro ha perso pian piano tutto, compresi i figli ritrovandosi a vivere per anni nell’unico rifugio a disposizione: una vecchia panda rossa. Da lì la risalita, il rapporto con volontari e comunità. Ed è questa una cosa che accomuna un po’ tutte le storie: la presenza dei volontari della Sant’Egidio, della Caritas e delle parrocchie. Uomini e donne che gli “Invisibili” li vedono, perché non si voltano dall’altra parte.

In ogni racconto c’è come un paradigma, ogni vita potrebbe essere quella di ciascun lettore perché le storie di questo piccolo (120 pagine) e unico volume dicono come sia diventato purtroppo facile passare da impieghi interessanti, lavori ben retribuiti a un letto di cartone.


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