Media, Arte, Cultura

Martin Scorsese: «La vita è tutta questione di grazia»

Esce oggi nelle sale italiane "Silence", il film di Martin Scorsese sulla persecuzione dei padri gesuiti e la comunità cristiana nel Giappone del ‘600. Un'intervista con il regista

di Antonio Spadaro

Nell'attesissimo Silence, il regista italo-americano Martin Scorsese racconta il martirio dei missionari gesuiti in Giappone. E proprio con un gesuita Antonio Spadaro, sulle pagine della Civiltà Cattolica, Scorsese racconta il lungo processo di gestazione del film e il suo modo di viverne la storia, che riconosce come parte della propria vita complessa. Storia che Scorsese sente come contraddittoria, ma sempre segnata dalla grazia. Ecco un estratto dell'intervista dal fascicolo 3996 della prestigiosa rivista.

Per lei credere in Dio ed essere cattolico sono due cose diverse, se ho capito bene. Che cosa intende con questo?
A me interessa come le persone percepiscono Dio, o, per così dire, come percepiscono il mondo dell’intangibile. Ci sono molte strade, e penso che quella che si sceglie dipenda dalla cultura di cui
si fa parte. La mia strada è stata, ed è, il cattolicesimo. Dopo molti anni in cui ho pensato ad altre cose, ho assaggiato questo e quello, mi trovo meglio da cattolico. Credo nei princìpi del cattolicesimo. Non sono un dottore della Chiesa, non sono un teologo in grado di ragionare sulla Trinità. E certamente non m’interessano le politiche dell’istituzione. Ma l’idea della risurrezione, l’idea dell’Incarnazione, il potente messaggio di compassione e amore… quella è la chiave. I sacramenti, se riesci ad accostarti a loro, a farne esperienza, ti aiutano a stare vicino a Dio. Ora, mi rendo conto che questo suscita una domanda: sono un cattolico praticante? Se con ciò s’intende: «Sei uno che va abitualmente in chiesa?», la risposta è no. Tuttavia fin da ragazzo mi sono convinto che la pratica non è qualcosa che avviene soltanto in un edificio consacrato e nel corso di certi riti svolti a una certa ora del giorno. La pratica è qualcosa che accade fuori, sempre. Praticare, davvero, è fare qualsiasi cosa tu faccia, di buono o di cattivo, e riflettere su questo. Questa è la sfida. Comunque, il conforto e la profonda impressione del cattolicesimo quando ero molto giovane… direi
che è sempre stato un riferimento.

Per me, tutto si riduce alla questione della grazia. La grazia è qualcosa che avviene nel corso della vita. Viene quando non te l’aspetti.

Martin Scorsese

Questo suo film, la scelta di un romanzo come «Silenzio», sembra porsi nell’alveo della spiritualità cristiana e dell’immaginario cattolico. Un film «alla Bernanos», in un certo senso. Che ne pensa?
Sono d’accordo sul fatto che sia nell’alveo della spiritualità cristiana, ma non sono sicuro di concordare sul paragone con Bernanos. Per me, tutto si riduce alla questione della grazia. La grazia è qualcosa che avviene nel corso della vita. Viene quando non te l’aspetti. Certo, lo sto dicendo come qualcuno che non ha mai attraversato la guerra, o la tortura, o l’occupazione. Non sono mai stato provato in quel modo. Ovviamente, ci sono state persone che sono state messe alla prova, come Jacques Lusseyran, il leader cieco della resistenza francese, che venne mandato a Buchenwald e tenne vivo lo spirito della resistenza tra i suoi compagni prigionieri: in effetti, abbiamo provato per molti anni a fare un film basato sul suo diario, E la luce fu. E c’è Dietrich Bonhoeffer. Elie Wiesel e Primo Levi sono stati capaci di trovare un modo per aiutare altri. Non sto dicendo che il loro esempio fornisca un qualche tipo di risposta definitiva alla domanda su dov’era Dio mentre tanti milioni di persone venivano macellate sistematicamente. Ma sono esistiti, hanno espresso atti straordinari di coraggio e di compassione, e li ricordiamo come luci nelle tenebre. Non è possibile vedere attraverso l’esperienza di qualcun altro, ma soltanto attraverso la propria.

Chi è Dio per lei? È fonte di punizione e di sgomento o è la sorgente della gioia e dell’armonia? Papa Francesco parla di Dio come Misericordia. Vuole sgombrare il campo e ripudiare qualsiasi immagine di un Dio torturatore… Dio può mai essere un torturatore?
Questo mi riporta a Bernanos, attraverso Robert Bresson e il suo adattamento di Diario di un curato di campagna. Ho visto quel film per la prima volta alla metà degli anni Sessanta. Avevo appena compiuto vent’anni e stavo crescendo, stavo superando l’idea di cattolicesimo che mi ero fatta da bambino. Come molti bambini, ero oppresso e profondamente impressionato dal lato severo di Dio che ci era stato presentato: il Dio che ti punisce quando fai qualcosa di male, il Dio tuoni e fulmini. È quello che Joyce tratteggiava in Ritratto dell’artista da giovane, un’altra opera che a quell’epoca ebbe un profondo effetto su di me. Certo, nel Paese era un momento molto drammatico. Stava montando la vicenda del Vietnam, e quella era appena stata dichiarata una «guerra santa». E quindi in me, come in tanti altri, c’era molta confusione, dubbio e tristezza che, appunto, c’era, era parte della realtà della vita quotidiana. Fu a quei tempi che vidi il film di Bresson, Diario di un curato di campagna, e mi diede speranza. Ogni personaggio di quel film, forse a eccezione del vecchio prete, prova sofferenza. Ogni personaggio si sente punito, e la maggior parte di loro si infliggono punizioni l’un l’altro. A un certo punto, il prete ha un dialogo con una delle sue parrocchiane e le dice: «Dio non è un carnefice. Vuole che abbiamo pietà di noi stessi». E questo per me ha costituito una sorta di rivelazione. Era la chiave. Perché, anche mentre noi sentiamo che Dio sta punendoci e torturandoci, se riusciamo a dare a noi stessi il tempo e lo spazio di rifletterci sopra, ci rendiamo conto che siamo noi i soli carnefici, ed è verso di noi che dobbiamo essere pietosi.

Al tempo in cui montava la vicenda del Vietnana, vidi il film di Bresson, Diario di un curato di campagna, e mi diede speranza. A un certo punto, il prete ha un dialogo con una delle sue parrocchiane e le dice: «Dio non è un carnefice. Vuole che abbiamo pietà di noi stessi». E questo per me ha costituito una sorta di rivelazione. Era la chiave. Perché, anche mentre noi sentiamo che Dio sta punendoci e torturandoci, se riusciamo a dare a noi stessi il tempo e lo spazio di rifletterci sopra, ci rendiamo conto che siamo noi i soli carnefici

Martin Scorsese

«Silence» sembra la storia di un’intima scoperta del volto di Cristo, un Cristo che sembra chiedere a Rodrigues di calpestarlo per salvare degli altri uomini, perché è per questo che è venuto nel mondo… Qual è il volto di Cristo per lei?
Ho scelto il volto di Cristo dipinto da El Greco, perché ho pensato che fosse più compassionevole di quello dipinto da Piero della Francesca. Nella mia gioventù, man mano che crescevo, per me il volto di Cristo era sempre un conforto e una gioia.

Lasciando da parte «L’ultima tentazione di Cristo», secondo lei quale film nella storia del cinema ritrae meglio il vero volto di Cristo?
Il miglior film su Cristo, per me, è Il Vangelo secondo Matteo, di Pasolini. Quando ero giovane, volevo fare una versione contemporanea della storia di Cristo ambientata nelle case popolari e per le strade del centro di New York. Ma quando ho visto il film di Pasolini, ho capito che quel film era già stato fatto.

Immagine in copertina: Martin Scorsese alla prima di Silence (fotografia di Matt Winkelmeyer/Getty Images)


Qualsiasi donazione, piccola o grande, è
fondamentale per supportare il lavoro di VITA