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Ripensare il mondo con Ivan Illich? Contro la congiura del silenzio

Con i suoi scritti Illich ha attaccato le fondamenta del “sistema tecnico” mettendo in discussione il ruolo di stampella degli “esperti” nei settori più vari: dall’educazione alla medicina, dalla politica all’economia, dalla sociologia all’ingegneria. Rileggerlo oggi, studiarlo, portare all'atto le sue feconde lezioni: ecco la sfida

di Pietro Piro

Nel cuore di un ricordo

Nel 2014 – un tempo remoto ormai secondo il principio di accelerazione assoluta del nostro tempo – la casa editrice Hermatena inaugurava una nuova collana dal titolo programmatico “Ripensare il mondo” coordinata da Aldo Zanchetta con il volume curato da Gustavo Esteva, cofondatore dell’Università della Terra di Oaxaca, dal titolo Ripensare il mondo con Ivan Illich (Hermatena, Riola 2014).

Il testo si compone di saggi brevi che pur non avendo l’intenzione di fornire una ricostruzione complessiva del pensiero di Illich permettono comunque al lettore di accedere ad alcuni aspetti essenziali del pensiero di questo autore. Gli autori dei saggi hanno tutti conosciuto personalmente Illich e nessuno di loro è rimasto indifferente alla sua carica umana, al suo potente pensiero.

Per J.M. Sbert: «una delle intuizioni più profonde di Illich continua a essere senza dubbio il sospetto che certi strumenti distruggano la gioiosa convivenza tra gli uomini, che creino un guscio artificiale che ci rinchiude e ci isola dagli altri e dalla natura. Questa alienazione e l’ideale contemporaneo di un mondo super asettico, nel quale tutti i contatti fra le persone, così come fra le persone e il loro ambiente siano il risultato della previsione e della manipolazione che inesorabilmente coltiva, produce e scolarizza il mondo fino a non lasciare alcunché di esso» (p. 37).

Per E. J. Burkhart, Illich ha chiarito che: «in un mondo malsano tutti noi che partecipiamo all’economia dei servizi ingrassiamo sulla decomposizione della società, praticando il cannibalismo sociale» (p. 49).

Per A. Escobar Illich è stato soprattutto un demolitore critico di certezze, soprattutto quelle dominanti dell’euro-modernità e ritiene sia: «assolutamente necessario preservare e rilanciare il lavoro di questo illustre autore e la sua etica di una immaginazione radicale e dissidente» (p. 61).

Per R. V. Herrera è indispensabile tornare a dialogare con Illich perché: «nutrirsi delle sue idee fornisce sostegno, orientamenti e retrospettiva ai popoli originari, alle comunità delle campagne e dei barrios urbani che chiedono autogoverno, autonomia e sovranità alimentare, ai movimenti culturali e di resistenza che difendono le lingue native, le sorgenti acquifere, le coltivazioni, la libertà di possedere, conservare e scambiare le sementi native e i saperi tradizionali. A coloro che difendono i propri territori e la loro biodiversità» (p. 82).

Per T. Shanin: «Illich non era un utopista. Non pensava che il mondo pre-industrializzato fosse ideale né che i processi di industrializzazione e globalizzazione fossero semplicemente e totalmente ‘sbagliati’. Era un realista che non cercava semplicemente di accettare o rifiutare, ma voleva scoprire un’immagine del passato e del presente più reale, più complessa e più contraddittoria. Non accettava nemmeno i nuovi miti del postmodernismo. La sua attenzione si concentrava sull’«immaginazione morale e politica a rischio di estinzione» (p. 189). Illich non era un “guru” e non cercava di essere preso in considerazione come autorità unica e sola. Per Shanin non «c’è spazio per nessun illichismo. Ma disconoscere i suoi meriti sarebbe ancor più sbagliato» (p. 201).

L'ora della leggibilità di Ivan Illich

Leggendo il libro per intero e meditando su tutte le sollecitazioni e i ricordi che gli autori ci propongono, emerge una figura di intellettuale solare, fraterno, disponibile, le cui intuizioni di pensiero possono essere sviluppate ed applicate in ogni aspetto della vita sociale. Un autore-miniera ancora tutto da interpretare e da capire. Ma se questo ritratto è attinente al vero perché questo libro – di grandissimo interesse – non ha avuto le attenzioni che meritava, soprattutto da parte di coloro che dovrebbero occuparsi di questi argomenti a livello professionale?

Nella prefazione al libro di Ivan Illich Genere. Per una critica storica dell’uguaglianza (Neri Pozza, Vicenza 2013), Giorgio Agamben sosteneva l’ipotesi che fosse giunta per questo autore l’ora della leggibilità. A suo giudizio l’opera di Illich «è genuinamente filosofica, come filosofico è il suo metodo, l’archeologia, che egli sviluppa in modo autonomo rispetto a Foucault» (p. 7). Allo stesso tempo però, conclude il suo ragionamento con un presagio: «questa [leggibilità] non sarà possibile fino a quando la filosofia contemporanea non si deciderà a fare i conti con questo maestro celeberrimo e, tuttavia, ostinatamente tenuto ai margini del dibattito accademico» (p.17).

Forse Illich è ingenuo, almeno nell’opinione di molti, però c’è qualcosa che mi assicura che è nel giusto: la sua allegria

E. J. Burkhart

Pare proprio che non solo la filosofia accademica non abbia quasi nessun interesse per Illich – escluse eccezioni che confermano la regola, soprattutto fuori dal nostro paese – ma che il pensiero di questo autore arretri sempre di più nella dimensione del ricordo personale, della commemorazione, della nostalgia.

Da un margine fecondo

A che cosa è dovuta questa marginalità del pensiero di Illich? Ritengo che le ragioni siano molteplici e di diverso ordine. Illich – ché è ricordato dai suoi numerosi amici di tutto il mondo come amico fedele e affettuoso – credo sia riuscito a farsi una quantità di nemici di proporzioni inaudite (forse solo Wilhelm Reich è riuscito a superarlo con esiti catastrofici). Nemici silenziosi, che preferiscono evitarlo piuttosto che affrontarlo direttamente.

Il motivo? Con i suoi scritti Illich ha attaccato le fondamenta della società amministrata e burocratizzata, l’intero “sistema tecnico” mettendo in discussione il lavoro di praticamente tutti gli “esperti” nei settori più vari: dall’educazione alla medicina, dalla politica all’economia, dalla sociologia all’ingegneria.

Da vivo Illich era un avversario temibile. Dotato di una erudizione impressionante, di una intelligenza vivissima e di una disciplina morale severa. Non era certamente facile da attaccare e da vincere. Quando era vivo si preferiva evitare lo scontro diretto con il suo pensiero, relegandolo nella galassia delle voci che gridano nel deserto. Da morto, i nemici possono batterlo semplicemente ignorandolo, non scrivendo di lui, non citandolo, non riconoscendone pubblicamente il contributo.

Nei nostri giorni presenti poi, il pensiero di Illich è di natura antropologicamente opposta alla tipologia dominante: l’uomo-massa (o uomo di superficie se si vuole ragionare con Vittorino Andreoli). È un pensiero che non serve a nulla nelle vite del McMondo.

Se negli anni ’70 il suo pensiero poteva essere utilizzato – forse anche senza essere compreso fino in fondo – da gruppi alla ricerca di una alternativa al modello consumistico, oggi la complessità del suo pensiero difficilmente riesce a diventare il “centro” dell’elaborazione di una visione critica. Il mondo è molto cambiato e non nella direzione indicata da Illich.

Oltre l'autorità

Tuttavia, la “congiura del silenzio” che avvolge come un manto questo pensatore radicale deve, a mio avviso, essere ricondotta alla sua matrice essenziale: il rapporto con la Chiesa Cattolica.

Illich è stato per tutta la vita un uomo di fede profonda e inamovibile, una persona che ha ricevuto un ordine sacro. Un prete cattolico che ha ricoperto incarichi importanti nella Chiesa. Un prete al quale la Congregazione per la Dottrina della fede ha rivolto ottantacinque domande il 17 giugno del 1968 in un procedimento istruttorio perché portatore di «dissolventi tendenze, umanitarie e libertarie, a danno della dottrina e della tradizione cattolica e della disciplina ecclesiastica». Un prete «irrequieto, avventuroso, imprudente, fanatico e ipnotizzatore, ribelle ad ogni autorità».

È vero che Illich ha rinunciato ai privilegi ecclesiastici e ai segni esteriori del sacerdozio, ma chiunque conosca da vicino cosa significhi ricevere un ordinazione sacerdotale sa quanto questo segno sia “indelebile” nel vissuto di una persona.

Se il pensiero pubblico di Illich si apre con una denuncia del lato oscuro della carità, si chiude, infine, con il più sconcertante dei sospetti: che la Chiesa perverta sistematicamente il messaggio di Gesù trasformando la richiesta d’amore in offerta di servizi. Non è forse il silenzio l’arma migliore per contrastare un sospetto così devastante?

Chi vorrà occuparsi di Ivan Illich dovrà tener presente dunque, almeno due ordini di difficoltà: il primo dovuto alla complessità del suo pensiero e la seconda alla pericolosità sociale della sua proposta, soprattutto in ambito ecclesiale. Illich è pericoloso perché è convinto che possa esistere una maniera diversa di vivere, di amare e di essere fedeli al prossimo e ha indicato la strada per raggiugere quell’obbiettivo. Ma non si è limitato solo ad indicare, ha vissuto intensamente la sua esperienza umana incarnando i valori che cercava di diffondere. Quanta pericolosa coerenza.

Chi vorrà in futuro occuparsi di Illich dovrà dunque fare tesoro dell’indicazione di Eugene J. Burkhart quando sostiene che il modo migliore per capirlo è «lo studio dettagliato di ciò che si oppone all’amicizia nel mondo di oggi» (p. 54).

Immagine in copertina: Jeff J Mitchell/Getty


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