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L’attenzione è il bene fondamentale che stiamo dilapidando

È la nuova moneta della società dell'informazione. Per procurarsela, le aziende offrono sempre più prodotti gratuiti e puntano sulle tecniche di sovra stimolazione sensoriale. Sul breve, si ritrovano consumatori docili ma sul medio periodo il danno è irreversibile anche per loro

di Marco Dotti

Che sia davvero l’epoca degli uomini pesce, come profetizzava Ödön von Horváth, nel suo Gioventù senza Dio? Ciò che lo scrittore austriaco non poteva sapere, quando scrisse il suo terzo romanzo, nel 1937, è che l’immagine di uomini dagli occhi tondi, fissi, inespressivi come quelli di pesci rossi che «vivono in un paradiso di stupidità» sarebbe riapparsa in modi e forme impreviste.

(Dis) economia dell'attenzione

Nel maggio 2014, Microsoft ha pubblicato un rapporto che raccoglie i risultati di uno studio condotto in Canada tra il 2000 e il 2013. Il titolo è How does digital affect Canadian attention spans? e i dati presentati sono impressionanti: nell’arco di 13 anni la soglia media di attenzione dei soggetti osservatisi è ridotta di un terzo, passando da dodici a otto secondi. Otto secondi: «Un secondo in meno dei pesci rossi», ammonisce il rapporto. Insomma, pesce batte uomo 9 a 8. Ed eccoli qua, gli uomini pesce di von Horváth. Ma a preoccupare le aziende è soprattutto la ricaduta del deficit di attenzione sui livelli di consumo: riducendo il margine dell’attenzione, la concorrenza si fa più spietata.

«L’attenzione», si legge nel rapporto, «è ingrediente necessario per la pubblicità». Diminuisce la capacità di stare concentrati più a lungo e in parallelo cresce la ricerca di stimoli nuovi. Il problema però è che questo non avviene solo nell’ambiente di lavoro, dove – ricorda ancora la ricerca –spesso ci dividiamo fra due o più schermi. Alone Together, «Soli insieme», per usare l’efficace espressione di Sherry Turkle, docente al Massachusetts Institute of Technology (Mit), noi lo siamo sempre, anche (o soprattutto)in famiglia. Anzi, ciò che l’antropologo Gregory Bateson chiamava “doppio legame” assume ora una valenza di sistema.

Da un lato, a genitori neuro fisiologicamente incapaci di attenzione si chiede di essere sempre più attenti ai propri figli. Dall’altro la destrutturazione degli orari di lavoro, unita al tempo esploso dei social network (come il filosofo Adriano Fabris ha felicemente titolato il suo libro sulla comunicazione nell’epoca di Twitter, uscito per Edb), profila una mutata qualità dell’attenzione. Anche se gli scienziati sono divisi riguardo alla definizione di soglia di attenzione e alle quote di colpe e meriti delle nuove tecnologie, tutti concordano sul fatto che il contatto costante con la retee l’immersione nei suoi pseudo ambienti cambia la natura, e non solo la quantità di tempo, dedicata alle relazioni e agli affetti.

Chiedere parole

Quando si trasforma il mondo in uno stato mentale e la coerenza della propria biografia è messa a repentaglio da un “mi piace”, le conseguenze – buone o cattive che siano – non si possono per ora calcolare. Lo va dicendo da tempo proprio Sherry Turkle, che nel suo recente Reclaiming Conversation. The Power of Talk in a Digital Age (Penguin, 2015; traduzione italiana di Luigi Giacone: La conversazione necessaria, Einaudi, 2016 ) osserva come comunichiamo senza sosta nell’universo digitale in cui siamo immersi. Ma una comunicazione costante non coincide con una reale attenzione. Dopo cinque anni di lavoro sul campo, nelle famiglie e nelle scuole, Turkle afferma che nel mondo sempre connesso la tecnologia non offre via di fuga dalla solitudine digitale in cui essa stessa ci ha precipitati.

Alla lunga, però, di questo la studiosa è convinta, l’essere umano ha grandi capacità di resistenza, che si possono riattivare attraverso la conversazione, ben più che con apparati tecno-farmacologici di cattura dell’attenzione. In fondo, tutto questo l’aveva già capito la filosofa Simone Weil quando, in un suo studio sull’attenzione scolastica come forma di preghiera, definiva per l’appunto l’attenzione «la forma più rara e pura di generosità».

Da parte sua Turkle osserva che un’attenzione fondata non su pillole o algoritmi, ma su una rete di relazioni, può essere anche un antidoto contro alcuni dei problemi più grandi che si riscontrano in famiglia o a scuola: il bullismo, in particolare. Il 28 settembre 2015, recensendo il libro di Turkle sul New York Times, lo scrittore Jonathan Franzen ricorda che ogni conversazione comporta un rischio, quello di annoiarsi. Ma proprio questa noia può costituire la matrice prima di una vera innovazione. «Pazienza e innovazione», osserva Franzen, «vanno di pari passo». Dissipare l’attenzione può essere un problema non da poco per le nostre società. Il declino dell’empatia a cui stiamo assistendo avrebbe dunque una stretta correlazione – così dicono recentissimi studi – con lo stay tuned, il tutti connessi. Meglio annoiarsi un po’, dunque. Annoiarsi per resistere, questo potrebbe essere lo slogan finale.

In copertina: Damien Meyer/AFP/Getty Images


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