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#weaccept: cosa vuole dire (veramente) lo spot Airbnb che non piace a Trump

Accusato di voler screditare le politiche USA contro gli immigrati, lo spot andato in onda durante il Super Bowl è semplicemente parte di una strategia di più ampio respiro (e non nuova) per combattere le discriminazioni segnalate dagli stessi ospiti degli alloggi. Ma anche per dare una casa a 100mila rifugiati o vittime di calamità naturali

di Gabriella Meroni

Li hanno accusati di voler contrapporsi alla politica di Trump contro i migranti, contrapponendo al suo “Immigration Ban” uno spot che più inclusivo non si può, trasmesso proprio durante la serata del Super Bowl e quindi visto da milioni e milioni di americani. Ma loro, quelli di Airbnb, fanno spallucce e sottolineano l’intento sociale della campagna. «Coloro che sono stati sfollati, sia per ragioni legate alla guerra che per altri fattori hanno un bisogno particolare di essere accettati e compresi», hanno scritto i fondatori Brian Chesky, Joe Gebbia e Nathan Blecharczyk in una lettera inviata a tutti gli host, i proprietari delle case della rete, e comparsa sul sito. «Hanno bisogno, in maniera piuttosto letterale, di un luogo che possano chiamare casa. Ecco perché abbiamo deciso di agire».

Non solo con lo spot e la relativa campagna social #weaccept, ma anche – più concretamente – attraverso un piano quinquennale per fornire 100 mila alloggi gratuiti a breve termine a chi ne ha bisogno, come per esempio rifugiati, superstiti di calamità naturali, volontari. Il tutto contando sulla generosità e collaborazione degli host, ma non solo: nei prossimi quattro anni infatti Airbnb investirà 4 milioni di dollari per aiutare l’International Rescue Committee per far fronte ai bisogni più urgenti dei rifugiati in tutto il mondo. A partire dagli USA: molte persone respinte alle frontiere americane in seguito al bando di Trump hanno infatti trovato ospitalità negli alloggi Airbnb. «Inizieremo dai rifugiati, dai superstiti e dai volontari, ma nel tempo desideriamo dare aiuto a molte altre categorie di persone», hanno scritto ancora i tre fondatori. «Lavoreremo con gli host della nostra community per fare in modo che chi si trova in queste condizioni possa trovare non solo un luogo dove stare, ma anche una rete sociale dove poter interagire con gli altri, dove sentirsi rispettato e nuovamente parte di una comunità». Entrare nel novero degli host solidali è facile: sul portale è infatti già comparso un modulo da compilare nel caso si sia disponibili a condividere la casa con una persona vulnerabile, attraverso il quale è possibile entrare in contatto con organizzazioni locali che si occupano di fornire assistenza a chi ne ha bisogno, o anche solo a effettuare una donazione.

Non è la prima volta, tra l’altro, che I vertici di Airbnb si muovono per abbattere il muro della diffidenza e della discriminazione: già nel giugno 2016 avevano infatti prodotto uno “statement” chiamato Open Doors (porte aperte) che tutti gli host hanno dovuto sottoscrivere a partire dallo scorso 1 novembre. Sottoscrivendolo, i proprietari si impegnavano a «trattare con rispetto, senza giudicare o biasimare tutti i membri della comunità (Airbnb, ndr) indipendemente da razza, religione, nazionalità, disabilità, sesso, identità di genere, orientamento sessuale o età». Il tutto per combattere alcuni casi di discriminazione segnalati da parte degli ospiti: «Non potremmo parlare di accoglienza nel mondo senza indicare le sfide all’interno della nostra stessa comunità – si legge ancora nella lettera – sappiamo di dover lavorare e ci impegniamo a migliorare il rispetto reciproco e il senso di appartenenza». In Italia gli host sono circa 83 mila con 3,6 milioni di turisti l'anno e un giro d’affari di 3,4 miliardi.

Sull'argomento leggi anche: Airbnb e la magnitudine dell'impatto di Flaviano Zandonai in Vita Blog


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