Welfare & Lavoro

Fà il lavoro giusto

Il lavoro giusto non è solamente quello che assicura una remunerazione equa a chi lo ha svolto, ma anche quello che corrisponde al bisogno di autorealizzazione della persona e, perciò, che è in grado di dare pieno sviluppo alle sue capacità e ai sui desideri

di Paolo Venturi e Annibale D’Elia

Il tema del lavoro e della qualità dell’occupazione sono oggi al centro di molte riflessioni e preoccupazioni connesse all’inevitabile ascesa e affermazione della tecnologia all’interno di nuovi meccanismi di produzione del valore (Frey. Osborne-2013).

Un vero e proprio “virus della precarietà” o “effetto di spiazzamento” sembra diffondersi nelle economie che fanno della tecnologia il dispositivo su cui innestare nuovi modelli di business: modelli orientati a massimizzare il profitto attraverso conversazioni sistematiche con l’ecosistema che le circonda. Ciò che accomuna la gig economy, on demand economy, app economy è innanzitutto un “uso” dell’attività lavorativa radicalmente diversa da quella che abbiamo conosciuto, in quanto il lavoro, spesso, è svuotato della sua vera natura e assume utilità nella misura in cui “fa funzionare” un sistema sempre più distribuito e frammentato, dove i confini e l’identità dell’occupazione tendono a sfumare e a diventare impersonali e liquidi tanto quanto quelli dell’impresa. (“Reinventare le organizzazioni” di Frederic Laloux 2016)

La tipologia di “condivisione” che infrastruttura questi modi di produrre valore (Porter-Kramer 2011) trasforma il DNA delle istituzioni (economiche e sociali), facendo emergere due diverse polarità del valore del lavoro: da un lato assistiamo alla crescita del valore delle “soft skills” e di tutte quelle meta-competenze capaci di attraversare la complessità e di produrre soluzioni creative; dall’altro osserviamo processi d’impoverimento dell’esperienza lavorativa (esemplare il caso della protesta dei lavoratori di Foodora) con il conseguente peggioramento del benessere individuale e della coesione del tessuto sociale (A. Tocqueville, Democrazia in America – 1835).

Da cittadino-lavoratore a cittadino-consumatore
In sintesi il passaggio a cui stiamo assistendo è per così dire un diniego “politico” del lavoro, favorito da un’economia secondo cui la figura centrale sarebbe oggi quella del cittadino-consumatore e non più quella del cittadino-lavoratore. Ciò in quanto nella IV rivoluzione industriale il capitale per la sua valorizzazione ha più bisogno dei consumatori che non dei lavoratori. (Zamagni 2014). Eppure, per secoli l’umanità si è attenuta all’idea che all’origine della creazione di ogni ricchezza ci fosse il lavoro umano – dell’uno o dell’altro tipo. Non è un caso che Adam Smith apra la sua opera fondamentale, La Ricchezza delle Nazioni (1776), proprio con tale proposizione.

A tal fine per superare le distopie prodotte dalla tecnologia, oltre ad investire in piattaforme che condividono e redistribuiscono diversamente il valore aggiunto prodotto, occorre riflettere sulla natura e non solo sulla funzione del lavoro.

Da tempo la scienza economica ha smesso di interrogarsi sulla natura del lavoro per occuparsi solo delle sue funzioni e dei modi del suo efficiente utilizzo. È per questo che la cultura economica esalta e deprime, al tempo stesso, il lavoro, facendolo diventare in molti casi “la nuova misura di tutte le cose” e creando un nuovo tipo di uomo – l’homo laborans (H. Arendt).

Su questo tema, la storia sembra ripetersi
Il grande economista di Cambridge, Alfred Marshall (1889), scriveva: “Nella storia del mondo vi è un prodotto sciupato, tanto più importante di tutti gli altri, che ha diritto di essere chiamato il Prodotto Sprecato: le migliori capacità lavorative di gran parte delle classi lavoratrici”. E, ancora, Hannah Arendt nel suo L’origine del totalitarismo (1951): “Il male radicale risiede nella volontà perversa di rendere gli uomini superflui. È come se le tendenze politiche, sociali ed economiche di questa epoca congiurino segretamente per maneggiare gli uomini come cose supeflue”.

Eppure Emanuel Mounier ci ha insegnato che: “lavorare è fare un uomo al tempo stesso che una cosa”.

Il lavoro come opera
Ma qual è il lavoro giusto? Quale visione può guidarci attraverso queste trasformazioni, in modo da valorizzare e non mortificare il ruolo del lavoro e cogliere come opportunità l’oggettivo potenziamento delle capacità umane di intervento sulla realtà?

Il lavoro giusto non è solamente quello che assicura una remunerazione equa a chi lo ha svolto, ma anche quello che corrisponde al bisogno di autorealizzazione della persona e, perciò, che è in grado di dare pieno sviluppo alle sue capacità e ai sui desideri. “In quanto attività basicamente trasformativa, il lavoro interviene sia sulla persona sia sulla società; cioè sia sul soggetto sia sul suo oggetto. Questi due esiti, che scaturiscono in modo congiunto dall’attività lavorativa, definiscono la cifra morale del lavoro” (S. Zamagni).

Proprio perché il lavoro è trasformativo della persona, il processo attraverso il quale vengono prodotti beni e servizi, non è qualcosa di neutrale. In altri termini, il luogo di lavoro non è semplicemente il luogo in cui certi input vengono trasformati, secondo certe regole, in output; ma è anche il luogo in cui si forma (o si trasforma) il carattere del lavoratore (Alfred Marshall).

È forse questa una chiave di lettura alla base di fenomeni come il progressivo diffondersi di hub di comunità, laboratori di fabbricazione digitale, coworking dedicati all’innovazione sociale. Solo in apparenza si tratta solo di spazi dove insediare la propria startup, apprendere l’uso di nuove tecnologie, affittare una scrivania a basso costo o ricercare occasioni di scambio utilitaristico per lavoratori della conoscenza. Almeno nei casi più riusciti, ad esempio dove gli stessi utilizzatori vengono coinvolti nella co creazione degli ambienti, sono luoghi dove la trama delle relazioni infrastruttura il senso del lavoro, oltre che il suo svolgimento.

Più in generale, lo stesso dibattitto sulla natura dell’innovazione sociale – nuova strategia per rispondere ai bisogni sociali o nuovo stratagemma per tagliare il welfare in tempi di crisi? – sottovaluta la dimensione più interessante e generativa del fenomeno. Fare innovazione sociale o “city making” vuol dire anzitutto partecipare in prima persona alla costruzione del mondo e dare un nuovo significato politico al lavoro e all’intrapresa. Una ricerca di senso che accomuna, trascendendo antiche categorie verticali, persone che operano in settori molto diversi: innovatori culturali, rigeneratori di spazi urbani, designer di servizi collaborativi, artigiani digitali, imprenditori sociali di nuova generazione.

In questo senso, l’attività lavorativa diventa opera, ossia quando riesce a far emergere la motivazione intrinseca della persona che la compie e non solo quella estrinseca connessa alla remunerazione. Ma cosa è necessario fare per rendere praticabile l’idea del lavoro come opera? Non si fa fatica a comprendere come, restando all’interno della gestione del lavoro tipica del taylorismo o dell’accelerazione estrattiva delle nuove piattaforme on demand, mai potrà realizzarsi la libertà del lavoro. La forma organizzativa quella della comunità. H. Mintzberg (“Rebuilding Companies as Communities”, Harvard Business Review, Agosto, 2009) ha bene chiarito, che i principi fondativi del modello della comunità sono la conversazione, la qualità del lavoro e la condivisione. Sono questi gli stessi principi che definiscono compiutamente il lavoro come opera.

Da economie di scala, ad economie coesive o di scopo
In un’era in cui la condivisione sta ridefinendo il concetto di economia, welfare e sociale, diventa urgente attivare e rigenerare una nuova generazioni d’imprese, luoghi ed economie capaci di fare della varietà l’elemento di competizione: una competizione che non si costruisce solo misurandosi con gli altri competitor (spesso inseguendoli sulla terra delle economie di scala) ma che è capace di intercettare quella domanda di beni e servizi capaci di non rendere superflue le persone, le relazioni e i significati (costruendo cioè economie coesive e di scopo).

Il lavoro ha bisogno d’imprese inclusive, naturalmente tecnologiche e intenzionalmente sociali; imprese che non separano dissennatamente dimensione soggettiva e dimensione oggettiva del lavoro, luoghi capaci di costruire occasioni concrete di libertà, la quale – mai lo si dimentichi – non può essere prodotta, né può essere scambiata al modo delle merci.


Da Che fare di Paolo Venturi e Annibale D’Elia


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