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Il Papa a Milano, una chiamata ad uscire

Che cosa dirà Francesco durante il suo viaggio in terra ambrosiana? Luca Doninelli, scrittore che qui vive, ha provato a immaginare quale sarà l’eredità di questo viaggio

di Luca Doninelli

Credo che tutti, come me, siano animati da una grande curiosità per quello che il Papa vorrà dire a noi ambrosiani, al Parco di Monza. Di fronte a lui ci sarà una città fiera, che raccoglie i frutti del proprio lavoro e che ora gode di un certo riconoscimento anche internazionale, ma che al tempo stesso deve cercare di non dissipare il proprio patrimonio.

Fin da quando fu eletto, Papa Francesco ebbe a cuore soprattutto i poveri. Ora, i poveri (comunque li si identifichi, dai migranti che giungono da noi senza nulla in tasca fino a quegli anziani che non riescono a vivere con la loro magra pensione) i poveri dicevo sono il primo tesoro della nostra città.

Già nel 1288 Bonvesin de la Riva contava con orgoglio il gran numero di opere di carità presenti nel territorio milanese. Alessandro Manzoni, quasi sei secoli dopo, ci offriva il più grande ritratto della città nell’epopea degli umili – parola importante, perché definisce i poveri non come gli accattoni, e non tanto come i miserabili (ossia degni di commiserazione) di Hugo, ma come coloro che sono legati alla condizione terrena.

Chi è povero non ha tempo di farsi troppe illusioni, non si riempie la testa di sogni, sta attaccato alla terra, tiene i piedi per terra.

Una città si definisce da come tratta i suoi poveri, e Milano ha una grande tradizione di carità. Vorrei tuttavia declinare questa parola nel senso che essa può assumere in questi anni.

Primo. La carità non è solo elemosina, non è solo beneficenza. L’una e l’altra sono cose bellissime, ma la carità viene prima di tutto. Non è affatto sbagliato dare a i poveri ciò che abbiamo in più, anzi. Ma questi gesti fanno parte di un comportamento eccezionale, nel senso di un comportamento che eccede la consuetudine. Fermarsi davanti a un povero, dargli un euro, stringergli la mano, chiedergli da dove viene, è un gesto semplice ma a suo modo eccezionale. Le dame della S. Vincenzo fanno cose straordinarie, c’è gente che campa grazie alla loro iniziativa.

Eppure la carità viene prima di tutto questo. Essa fa parte della dimensione normale del vivere, non sta prima o dopo la famiglia, il lavoro ecc., ma dentro di essi. Mi è capitato spesso di interrogare chi ha realizzato grandi opere di carità – scuole per i poveri, ospedali, servizi di accoglienza – e di sentirmi rispondere “non so cosa dire”, oppure “io non ho fatto niente”. Non è falsa modestia, non è un modo per schermirsi, è la semplice verità. Per chi vive la carità, chiedere “perché lo fai?” è come chiedere “cosa fai stasera per cena?” o qualcosa di simile. Per questo fanno fatica a raccontare: non hanno immagini da salvare, da difendere. In quella che Heidegger chiamava l’epoca dell’immagine del mondo la carità non si costruisce immagini.

Secondo. Al tempo stesso, però, la carità tende a rispondere ai bisogni così come il tempo presente li pone. La storia, anche recente, di Milano lo testimonia. La carità si sposa sempre con l’innovazione. Se io ti insegno a fabbricare una sedia, devo insegnartelo in modo che tu la possa mettere sul mercato, che sia dunque una sedia bella, comoda, elegante. Se ti do un piatto di minestra, deve essere una minestra buona, la migliore possibile. Questo perché? Perché, come dice un mio grande amico, che si occupa di queste cose sette giorni su sette, “creatività e innovazione sono il frutto di una paternità smisurata che cerca sempre la soluzione per ognuno, la strada perché ognuno possa scoprire sé stesso, fare quell’esperienza di soddisfazione che lo renda partecipe e soggetto della creazione.”

Per finire. Oggi Milano uscire dalla logica dei suoi particolarismi. Una cultura deleteria, nata negli anni Ottanta, e proliferata nel mondo del lavoro e in quello della cultura, ci ha inculcato il bisogno di avere nemici, di avere sempre qualcuno da sconfiggere, qualcuno di cui sentirsi migliori.

Io non giudico questo atteggiamento in sé ma per le conseguenze che ha avuto sul nostro modo normale di pensare. Non c’è nessuno che detenga un qualunque potere – politico economico o culturale – che non ripeta “noi abbiamo fatto questo, noi abbiamo fatto quello” a proposito di quello che ha fatto la sua società, il suo assessorato, il suo ente culturale ecc..

Secondo me questo modo di ragionare va superato. Il Papa ci invita a uscire, a non dare per scontato ciò che siamo noi e ciò che sono gli altri. Ce lo ricorda la parola “Chiesa”, che non indica un entrare da qualche parte ma un uscire: ek-clesia, un esser-chiamati-fuori.

La visita del Papa a Milano è questa chiamata-fuori. Quello che ciascuno di noi fa può essere bello e utile, ma non basta. Non basta editare libri, non basta finanziare progetti, non basta scrivere canzoni, e non basta nemmeno mettere in piedi opere di assistenza. Nessuna di queste cose, infatti, risponde alla domanda più importante, su chi siamo e su cosa è veramente necessario per vivere da uomini. Papa Francesco ci chiama a uscire, ascoltiamolo.


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