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Lavorare gratis, lavorare tutti. La proposta di De Masi

Nel suo ultimo libro, Domenico De Masi parte da un assunto fondamentale: «tutta la nostra ricchezza, il nostro prestigio, la nostra rispettabilità, le nostre opportunità, le nostre tutele, qualsiasi forma di sopravvivenza, devirano dal nostro lavoro. Ma il lavoro viene negato a un numero crescente di individui che quindi sono gettati nella disperazione». Questo orrore umano ed economico deve essere contrastato e deve essere immaginata una società diversa, più solidale e più attenta ai bisogni integrali delle persone. Anche indicando nuove strade da percorrere

di Pietro Piro

Il libro del sociologo Domenico De Masi, Lavorare gratis, lavorare tutti. Perché il futuro è dei disoccupati, (Rizzoli, Milano 2017), è certamente destinato a generare polemiche e prese di posizioni.

Il motivo è molto semplice: si tratta di un saggio che, da un lato, cerca di ricostruire i passaggi decisivi che ci hanno condotti sino ad oggi e dall’altro, avanza delle proposte politiche per cercare di attraversare la tempesta del presente.

La recente vicinanza del sociologo con i vertici del MoVimento 5 Stelle non aiuta a valutare con il necessario distacco le tesi sostenute del libro ed è evidente che possano crearsi conflitti ideologici e prese di posizione basate su pregiudizi. Occorre invece, leggere con attenzione il volume per valutare cosa è utile di questo testo e cosa invece mostra segni di debolezza.

La tesi centrale del volume è la seguente: i disoccupati, invece di starsene a casa, dovrebbero regalare la propria professionalità ai cittadini che ne hanno bisogno. Perché? Scrive De Masi: «Perché starsene a casa significa marcire, significa sputare addosso ai sacrifici fatti per professionalizzarsi, significa sprofondare nel vuoto dell’inutilità, significa rischiare la follia, la droga, la violenza. Invece, uscire di casa e regalare a qualcuno che ne ha bisogno un brandello della propria professionalità significa autorealizzarsi; significa sferrare un pugno nello stomaco di questa società postindustriale centrata sul tempo libero; significa contribuire attivamente, sfacciatamente, orgogliosamente alla costruzione di una convivenza inedita, ripulita dalla nevrosi dello strapotere, della concorrenza e dallo spreco, gelosissima dei suoi bisogni radicali di introspezione, bellezza, gioco, amicizia, amore e convivialità. Mille volte meglio lavorare gratis che non lavorare affatto» (pp. 256-257).

Impossibile collocare correttamente questa tesi, senza aver prima averla collegata con il programma che dovrebbe portare all’attuazione di questa “rivolta del gratuito”. Quello che De Masi prospetta per i disoccupati, infatti: «non è di conquistare, lottando con le unghie e con i denti, un posto in ultima fila nel mercato del lavoro industriale, ma di sedere in prima fila nella cabina di regia della società postindustriale, dove si pilota la nuova società verso approdi meno scabrosi di quelli che abbiamo sperimentato finora» (p. 196).

De Masi non è un luddista e neanche un nostalgico del lavoro del passato, al contrario, spinge nella direzione di una totale realizzazione del processo evolutivo innescato dal progresso tecnologico: «lungi dall’ostacolarne o bloccarne la marcia trionfale, occorre fare di tutto affinché avanzi speditamente e mantenga dritta la rotta verso la liberazione dell’uomo dal lavoro faticoso, stressante e alienante» (p. 196).

I disoccupati, lottando per quello che gli spetta, finiranno per modificare profondamente il mercato del lavoro rendendo più giusta e più pacifica l’intera umanità (p. 197).

Bisogna osar volere l’Esoso dalla “società del lavoro”: essa non esiste più e non ritornerà. Bisogna volere la morte di questa società che agonizza affinché un altra possa nascere dalle sue ceneri.

André Gorz, Miserie del presente, ricchezza del possibile

De Masi ritiene sia fondamentale per ottenere questo risultato epocale, mettere in atto una strategia in undici fasi: «1) stabilire quantità e qualità dell’universo di riferimento; 2) creare una piattaforma informatica che consenta l’aggregazione e la dinamica del movimento; 3) elaborare un modello di società non più monopolizzato dal lavoro ma dalla vita nella sua interezza; 4) monitorare con precisione e tempestività i dati concernenti il mercato del lavoro; 5) battersi per la scolarizzazione, per la ricerca e per lo sviluppo; 6) battersi contro l’overtime; 7) monitorare le skills dei disoccupati per orientarli verso il lavoro più adatto alla loro vocazione; 8) passare in rassegna e recepire le esperienze che si sono già verificate nel corso della storia e delle diverse società per risolvere il problema della disoccupazione; 9) pianificare l’introduzione di un salario minimo e di un reddito di cittadinanza; 10) pianificare la riduzione dell’orario di lavoro e la sua ripartizione; 11) mettere a punto un’azione individuale e collettiva per raggiungere queste conquiste» (p. 197).

Questa strategia, concretizzata dal movimento dei disoccupati, finalmente connessi e organizzati, spinti da una forte indignazione civile e morale (p. 198) mira non solo alla piena occupazione ma anche alla realizzazione della felicità (p. 199).

De Masi parte da un assunto fondamentale: «tutta la nostra ricchezza, il nostro prestigio, la nostra rispettabilità, le nostre opportunità, le nostre tutele, qualsiasi forma di sopravvivenza, devirano dal nostro lavoro. Ma il lavoro viene negato a un numero crescente di individui che quindi sono gettati nella disperazione» (p. 9) questo orrore umano ed economico deve essere contrastato e deve essere immaginata una società diversa, più solidale e più attenta ai bisogni integrali delle persone. Anche indicando nuove strade da percorrere.

Non ritengo possibile catalogare le ipotesi di De Masi nell’ambito della mera provocazione intellettuale. De Masi si sforza di fronte a una tendenza annichilente e drammaticamente pervasiva di avanzare la proposta di un metodo di lotta e di organizzazione.

De Masi parte da un assunto fondamentale: «tutta la nostra ricchezza, il nostro prestigio, la nostra rispettabilità, le nostre opportunità, le nostre tutele, qualsiasi forma di sopravvivenza, devirano dal nostro lavoro. Ma il lavoro viene negato a un numero crescente di individui che quindi sono gettati nella disperazione» (p. 9) questo orrore umano ed economicodeve essere contrastato e deve essere immaginata una società diversa, più solidale e più attenta ai bisogni integrali delle persone. Anche indicando nuove strade da percorrere.

Già Edgard Morin nel suo La Via. Per l’avvenire dell’umanità, Raffaello Cortina, Milano 2012, elencava numerose opportunità concrete per dare avvio a una nuova organizzazione sociale e non meno avaro di consigli pratici è stato Serge Latouche nel suo Come si esce dalla società dei consumi. Corsi e percorsi della decrescita, Bollati Boinghieri, Torino 2011 che De Masi cita con particolare riguardo (p. 117).

Se ci muoviamo a ritroso, non possiamo non collocare questo libro nella tradizione culturale che va da Platone sino a Morin e che si è prodigata d'ipotizzare forme alternative di società rispetto a quella esistente in uno sforzo di immaginazione filosofica e sociologica che non solo è legittimo ma è assolutamente necessario. Quando il presente diventa intollerabile è urgente convogliare l’indignazione «verso la realizzazione di un modello di società, di lavoro, di vita, pensato in precedenza con geniale creatività filosofica, sociologica e politica» (p. 198).

Le proposte di De Masi sono dunque legittime e urgenti ma non necessariamente condivisibili o corrette. Chi scrive ha lavorato a lungo con persone che hanno perso il lavoro. La maggior parte si trova in una condizione di sofferenza psicologica, frustrazione, senso di impotenza, senso di colpa, rassegnazione, malessere che rende difficile, se non impossibile realizzare piani di lunga durata.

Lo sa bene anche De Masi quando scrive: «la docile non-ribellione è assicurata dalla stessa povertà, che infiacchisce il corpo e offusca la mente, inchiodando tutta la persona alla ricerca di risorse minime e indilazionabili, sicché non resta nessuna residua energia, nessuna ulteriore intelligenza da applicare a un progetto di lungo termine, dal momento che anche il medio termine è un lusso che il povero non può permettersi» (p. 19).

Molti disoccupati non hanno nessuna possibilità di dare avvio a percorsi di aggregazione o di consapevolezza collettiva. Per questo motivo, l’introduzione di un reddito di cittadinanzapermetterebbe a molti di respirare e cominciare a immaginare un futuro diverso.

Chi scrive crede che il futuro del lavoro è sempre e comunque nelle mani di chi lavora. Nell’avanguardia di quel movimento internazionale dei lavoratori che tanto ha lottato e tanto ha sofferto per avanzare sulla via dei diritti e della giustizia sociale. I disoccupati non sono una corpo sociale isolato e ancora meno una razza o una classe. La disoccupazione è una condizione temporanea che quando diventa duratura si trasforma in qualcosa di terribile e sconcertante: lo scarto sociale di una società cannibale che avanza divorando anime.

Il libro di De Masi potrebbe essere un punto di partenza. Riassume molte posizioni d’importanti teorici contemporanei ed elenca misure concrete e proposte lucide per guardare al futuro. Una sfida, un contributo alla riflessione, una proposta per il dialogo e per la crescita collettiva. Uno strumento di convivialità responsabile. Non permettiamo che il pregiudizio politico e la banale volgarità permetta di non riflettere con attenzione su temi così urgenti e attuali.


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