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Migrazioni di massa: strumento della nuova guerra asimmetrica?

Possono sistemi che hanno codificato impegni per l'accoglienza, il lavoro, la partecipazione non offrire accoglienza, lavoro, tutela, aiuto, integrazione a chi le chiede? Possono, ovviamente. Ma a quale prezzo? Forse il prezzo più alto: la propria fine. Uno studio di Kelly M. Greenhill porta all'attenzione il fenomeno delle migrazioni usate come arma di coercizione per forzare la tenuta degli Stati democratici

di Marco Dotti

Si racconta che, durante la sua storica visita in Cina, Richard Nixon abbia chiesto al presidente Mao più libertà, e più libertà significa anche più libertà di movimento, per gli oppressi cittadini della Repubblica Popolare. La risposta del presidente Mao fu pacata, ma efficace: se noi apriamo le frontiere, voi siete disposti ad accollarvi 2-300milioni di cittadini cinesi in uscita dalla Cina? L’ordine globale ne sarebbe uscito stravolto e Nixon fece buon viso – per quel che gli riuscì – a cattivo gioco.

Gruppi umani, armi per le élites

L’aneddoto ha una sua verità, forse non storica ma certamente chiarificante e se non è con gli aneddoti che si fa la storia è pur sempre vero – lo osservava Braudel – che anche gli aneddoti ci aiutano a gettar luce sulle sue pieghe spesso oscure. L’aneddoto Mao-Nixon luce ne getta su almeno due questioni cruciali per il nostro tempo. La prima, ha un nome imbarazzante e ostracizzato, ipocrisia, e riguarda le democrazie: sono davvero disposte, le nostre democrazie che si autodichiarano libere, eguali, fraterne, solidali a essere conseguenti negli atti e nei fatti ai propri principii? La seconda questione, riguarda la possibilità inversa: come, nella storia e, soprattutto, nella storia recente gruppi umani sono stati utilizzati come armi dai regimi liberticidi, finendo per diventare – ma questo è ancora il fuoco presente, non ancora storia – nelle mani di qualche catch-all party e strumento per una ridefinizione regressiva del concetto di democrazia e delle pratiche di solidarietà e accoglienza che in quel concetto sono inscritte.

Weapons of mass migration, armi di migrazione di massa li definisce Kelly M. Greenhill, studiosa e ricercatrice americana della Kennedy School of Government, a Harvard. Le sue ricerche, pubblicate in un libro per i tipi della Cornell University Press, sono ora disponibili anche al lettore italiano, grazie alla Leg, la Libreria Editrice Goriziana (Leg) che ha mandato in libreria da pochi giorni Armi di migrazione di massa. Deportazione, coercizione e politica estera (pagine 482, euro 20). nella traduzione di Pasquale Faccia, con prefazione di Sergio Romano e una nota di Gianandrea Gaiani.

Il caso-Libia

Le ricerche di Greenhill prendono in considerazione 56 casi di migrazioni organizzate per eterofinalità politica dal 1951 al 2006: Haiti, Cuba, Corea del Nord e Kosovo sono i case studies più rilevanti. Ma anche Germania dell'Ovest, Vietnam, Ungheria, Ciad. Numeri e dati supportano un'analisi molto seria, che incrina molte certezze e apre molti varchi nella percezione di un fenomeno sempre più interconnesso con la fase della globalizzazione. Con un caso, per noi e per il Mediterraneo, davvero cruciale ed emblematico: la Libia di Gheddafi, con le inevitabili conseguenze e i forse più che evitabili, tragici riverberi su tutto il Mediterraneo e l’assetto nordafricano del post-Gheddafi.

La profezia del Colonnello libico – «senza di me, sareste invasi» – ha il sapore della self fulfilling prophecy. Ma è un sapore non per questo meno amaro: che cosa potevamo, dovevamo fare per evitare che, dalle mani del Colonnello, quelle armi passassero direttamente in quelle delle transnational corporations dei trafficanti di uomini? Il libro di Kelly M. Greenhill risulta particolarmente chiaro e documentato su questo punto. Una spia dell’efficacia di quest’arma non convenzionale? Le sanzioni, in vigore dagli anni Ottanta nei confronti della Libia vennero revocate l'11 ottobre 2004 dai ministri degli esteri dell'Unione Europea. In cambio di cosa? In cambio della promessa, da parte della Libia, di contribuire ad arrestare il flusso delle migrazioni, rafforzando il controllo alle frontiere. L'embargo totale venne revocato, di comune accordo tra i 25 Paesi europei cancellando tutte le sanzioni contro la Libia imposte dalla Ue nel 1986 e anche quelle successive imposte nel 1992, in seguito all'embargo Onu, permettendo così la fornitura di armi ed equipaggiamenti militari, sbloccando inoltre il congelamento di fondi finanziari libici all'estero e il divieto nella fornitura di beni e servizi civili legati all'industria petrolifera.

Più del terrorismo, più dell'instabilità indotta nei mercati petroliferi, Gheddafi riuscì a «esercitare una valida, seppur non convenzionale forma di coercizione nei confronti della più grande unione politica ed economica del mondo».

Se per coercizione si intende la «pratica di provocare o impedire cambiamenti nella condotta politica tramite minacce o qualche altra forma di pressione, per lo più militare», la coercizione del leader libico, dopo gli anni del terrorismo, si è basata, osserva l'Autrice, su tre punti di pressione deliberata: 1) la creazione, 2) la manipolazione, 3) lo sfruttamento dei migranti e dei rifugiati. Migranti e rifugiati che, letteralmente presi nel gioco di equlibrio e pressione fra Stati canaglia e Stati bersaglio, sono le vere vittime di quelli che Greenhill non esita a definire «disastri innaturali». Capirlo è fondamentale, per non chiudere il cerchio della "profezia autoavverantesi":

Migrazione coercitiva progettata

Per Greenhill diventa quanto mai importante, vista l'instabilità geopolitica attuale, comprendere il potenziale coercitivo delle migrazioni forzate/progettate di massa. Ma che cos'è una migrazione progettata di massa? Io definisco così, spiega l'Autrice, «quei movimenti transfrontalieri che vengono deliberatamente creati per ottenere concessioni politiche, militari e/o economiche». Si tratta di movimenti migratori provocati per scopi strategici, dai quali nella sua analisi l'autrice esclude i flussi indotti da politiche commerciali (ad esempio la costruzione della Diga delle Tre Gole in Cina) o da conflitti territoriali (ad esempio fra diverse etnie) o le migrazioni per abbandono (il caso delle terre abbandonate d'Etiopia, dopo la carestia degli anni Ottanta). La migrazione non è un mere effetto collaterale, ma diretto di una strategia deliberata.

Chi se ne serve?

Se la migrazione coercitiva viene progettata (non a caso l'Autrice parla di coercive engineered migration), chi la progetta e, di conseguenza, se ne serve? Greenhill individua tre attori: generatori, agents provocateurs e opportunisti. Vediamoli nel dettaglio:

  • Generatori: sono coloro che innescano crisi sistemiche migratorie. Sono attori attivi di un processo che, strategicamente, può livellare le disparità di potere fra Stati (ma non solo). Sono facilmente identificabili e, solitamente, sono al vertice di piramidi autoritarie di potere: Idi Amin Dada, Gheddafi, etc.
  • Agenti provocatori: sono la fascia più critica e meno immediatamente identificabile, spesso sono soggetti terzi rispetto agli Stati, che in qualche modo possono trasformare una crisi limitata in una crisi di ampie proporzioni, facendo pressione, orientando l'opinione pubblica e le azioni umanitarie;
  • Opportunisti: se generatori e agenti provocatori sono sfruttatori attivi, questi sono sfruttatori passivi, ma intraprendenti, che non partecipano in maniera diretta all'innesco delle crisi migratorie ma ne traggono profitto, ad esempio minaciando di chiudere i confini, dislocando o causando emergenze umanitarie.

La vulnerabilità morale delle democrazie liberali

Nel suo lavoro, Greenhill studia come e a quali condizioni la coercive engineered migration ha avuto successo, in una fascia temporale che abbraccia mezzo secolo, dal 1953 al 2006. Anche se spesso questo genere di coercizione si è dimostrato uno strumento di persuasione geopolitica molto debole, rimande un'arma destabilizzante: non dobbiamo dimenticare che la costruzione del Muro di Berlino, iniziata nel 1961, originava anche dal timore di un collasso statale, potenzialmente indotto da flussi di migranti (da Est a Ovest).

Molti i fattori di successo/insuccesso e le variabili di questo modello strategico presi in esame da Greenhill. Su tutti, la vulnerabilità morale delle democrazie liberali e la presenza di conflittti interni. Il design istituzionale e valoriale di queste democrazie, le renderebbe infatti particolarmente vulnerabili all'imposizione dei cosiddetti costi dell'ipocrisia indotti dalle migrazioni progettate: quanto sono disposte a non rivelarsi conseguenti nella pratica rispetto ai diritti che promettono e ai valori che professano le nostre democrazie?

I costi dell'ipocrisia, spiega l'Autrice, «sono quei costi politici e simbolici che possono essere inflitti quando esiste una disparità reale o percepita tra un impegno dichiarato verso valori e norme liberali e azioni che invece contraddicono tale impegno». Queste contraddizioni morali sono note a generatori, sfruttatori, fiancheggiatori di flussi migratori programmati (ribadiamolo: le vittime restano vittime, e sono i migranti stessi!) che riescono a piegarle a proprio vantaggio.

Possono sistemi che hanno codificato impegni per l'accoglienza, il lavoro, la partecipazione non offrire accoglienza, lavoro, tutela, aiuto, integrazione a chi le chiede? Possono, ovviamente. Ma a quale prezzo? Forse il prezzo più alto: la propria fine.

Immagine in copertina: confine tra Corea del Sud e Corea del Nord, Chung Sung-Jun/Getty Images


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