Media, Arte, Cultura

Incubatori di populismo. La politica ai tempi dei social network

Nei giorni dell'attacco frontale alle ong, bersagliate da accuse senza prove, Luca De Biase, sul magazine di Aprile, analizza uno studio pubblicato sulla rivista della National Academy of Sciences americana secondo cui movimenti cosiddetti pupulisti, come Trump o i 5 stelle «fioriscono nei contesti dove si dedica molta attenzione a forme di informazione di scarsa qualità» e «crescono con l’aiuto dei media sociali»

di Luca De Biase

Con un studio pubblicato su Pnas, la rivista della National Academy of Sciences americana, Walter Quattrociocchi ha analizzato le echo-chamber che si formano sui social network studiando le interazioni di 376 milioni di utenti Facebook con più di 900 giornali e sistemi di produzione di notizie. Quattrociocchi dimostra che la teoria della “selective exposure” domina il consumo di notizie e crea diversi ambienti segregati e non comunicanti basati su diversi pregiudizi e diversi conformismi: in queste echo-chamber le notizie che contraddicono le opinioni dominanti vengono respinte o ignorate. Le false notizie che aderiscono all’opinione comune nella echo-chamber vengono accolte. Il dissenso e il fact-checking che le smentisce viene respinto.

Dell’importanza di questi fenomeni non si può dubitare. Un progetto come Pandoors portato avanti da Quattrociocchi e altri può essere produttivo. Un articolo dell’Economist peraltro aiuta a vedere questi fenomeni in una prospettiva relativa ai diversi contesti mediatici.

Il ragionamento è chiaro. Si parte dall’idea, da dimostrare, secondo la quale i movimenti populisti fioriscono nei contesti dove si dedica molta attenzione a forme di informazione di scarsa qualità; quei movimenti, inoltre, crescono con l’aiuto dei media sociali. Implicito in questa idea è che i movimenti populisti non abbiano troppo bisogno che i loro elettori sappiano come stanno le cose ma siano piuttosto frutto di ottime campagne di attivismo che si fanno molto bene usando i social network. Il caso di Trump sarebbe esemplificativo di questa idea: gli americani fanno largo uso di social media, hanno poca fiducia nei sistemi di informazione tradizionale (33%), fanno vincere
i populisti. Non tutti i Paesi però confermano l’ipotesi. In Gran Bretagna ha vinto un referendum considerato populista, i social media sono molto usati, ma i giornali tradizionali godono di molta più fiducia che in America (50%). In Italia, il primo partito è il Movimento Cinquestelle, i giornali hanno una fiducia dubbia (42%), ma si fa poco uso di Twitter: ma l’esperimento Cinquestelle, dice l’Economist, è il più avanzato del mondo nell’utilizzo della rete per la formazione della politica
 (e avviene in uno dei Paesi meno avanzati d’Europa in termini di cultura digitale). I francesi stanno rischiando
di veder crescere le chance del Fronte Nazionale, attribuiscono poca fiducia ai giornali (31%), usano pochissimo Twitter. Insomma, si direbbe che la relazione tra queste variabili spieghi
la situazione meno di quanto ci si aspettasse.

L’Economist però ha una ipotesi ulteriore. Se un Paese è tanto poco attento alla privacy da consentire l’uso della rete per fare propaganda capillare e quasi personalizzata, l’effetto delle attività di disinformazione e attivismo è maggiore che nei Paesi che sono
 più attenti a salvaguardare la privacy. L’America cade nel primo caso. L’Europa nel secondo.
 Neppure questo spiega tutto: in fondo la forza del populismo inteso come anti-tecnocrazia è maggiore dove maggiori sono i problemi sociali forti e polemiche accese (perdita
di prospettive di lavoro, critica superficiale dell’immigrazione, delegittimazione del ceto politico);
il sistema mediatico è coinvolto nel fenomeno più come amplificatore che come causa, probabilmente; il senso dei diritti umani, come la privacy, e la domanda di informazione di qualità sono altrettanto probabilmente dei motivi di tenuta.


debiase.com


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