Famiglia & Minori

Sbaglia il codice triage, paziente muore: infermiere condannato per omicidio

La Cassazione conferma la responsabilità di un infermiere che ha attribuito il codice verde a un uomo colpito da infarto, che poco dopo muore senza aver ricevuto nessuna cura. Contestata per la prima volta la sottovalutazione dell'anamnesi, di solito competenza del medico, e respinta la difesa dell'infermiere, che aveva addotto il «sovraffollamento» della struttura

di Gabriella Meroni

È stato riconosciuto colpevole di omicidio colposo (sentenza confermta dalla Cassazione) un infermiere che aveva attribuito un “codice verde” a un paziente colpito da infarto, poi deceduto. Il codice giallo, secondo la sentenza, avrebbe permesso all’uomo di essere sottoposto a esami più tempestivi e, quindi, presumibilmente di essere salvato. La Cassazione (IV sezione penale, sentenza 10 aprile 2017, n. 18100) ha quindi riconosciuto la responsabilità dell’infermiere del triage del pronto soccorso, che ha sottovalutato il codice colore provocando così una catena infausta di eventi: il paziente, con un infarto in corso trasportato al pronto soccorso da un’ambulanza dove era stato assegnato un codice giallo, non viene sottoposto a un esame obiettivo e a un elettrocardiogramma secondo le “linee guida del triage infermieristico”, e in seguito non viene rivalutato. In pratica, per oltre due ore non riceve «alcun tipo di cura». Il triste risultato è la morte dell’uomo, che oltretutto presentava una familiarità per malattie cardiovascolari, visto che il padre era a sua volta deceduto per infarto.

«Si tratta di un elemento di novità relativo a una ulteriore sottovalutazione che risulta nuova rispetto ai precedenti: la sottovalutazione della familiarità risultante dall’anamnesi», rileva il giurista Luca Benci su quotidianosanita.it, «Infatti all’infermiere del pronto soccorso si contesta, oltre all’errata attribuzione del codice, anche l’incompleta compilazione della scheda di accettazione dove si è trascurata la mancata considerazione della familiarità: dall’anamnesi effettuata dal personale dell’ambulanza risultava la morte per infarto del padre del paziente». La novità è importante, si nota, perché un elemento come la familiarità attiene all’anamnesi che viene ricondotta, tradizionalmente, alla competenza medica.

La difesa dell’infermiere – continua Benci – ha contestato la causalità del ritardo, basata sui referti autoptici che indicano un infarto insorto da “pochissimo tempo”, quindi successivo all’ingresso al pronto soccorso; sottolineato anche l’iperafflusso al pronto soccorso, dove – ha scritto la difesa – «giunse un numero sproporzionato di persone». Un punto non nuovo, spesso invocato in casi come questo per ridurre la responsabilità dell’errore, che però la Cassazione aveva già in passato ritenuto non valido. «Le condizioni di sovraffollamento della struttura sanitaria, il giorno del fatto, non autorizzavano altrimenti la declassificazione del triage rispetto ai codici di priorità gialli, che afferiscono a patologie degne di particolare attenzione», si legge nella sentenza dello scorso aprile, con la quale è difficile non essere d’accordo: l’emergenza clinica non può infatti dipendere o essere condizionata dalle condizioni organizzative e di impegno a cui è sottoposto il pronto soccorso. Un’emergenza è un’emergenza, e come tale va trattata. «Vero è», conclude però il giurista, «che nelle attuali condizioni di forte sofferenza dovute all’eccessivo numero di accessi al pronto soccorso le vittime rischiano di essere, oltre agli inconsapevoli pazienti, proprio tutti gli operatori del pronto soccorso che, come è noto, sono a loro volta anche ulteriori vittime di episodi di intolleranza e violenza».


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