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Mario Giro: “La politica europea di sviluppo legata alle migrazioni”

"Siamo ormai tutti d’accordo che occorra una politica di sviluppo legata alle migrazioni". Così il vice ministro degli Esteri, Mario Giro, dopo l'approvazione al Consiglio Affari Esteri dell'UE del nuovo Consenso europeo per lo sviluppo, un documento strategico sulle politiche europee di sviluppo dei prossimi anni.

di Joshua Massarenti

Con l’approvazione del ‘Consenso europeo per lo sviluppo’, ieri a Bruxelles i ministri UE per lo sviluppo hanno approvato le nuove linee strategiche dell’Unione in materia di cooperazione internazionale per i prossimi anni. L’obiettivo è quello di allinearsi all’Agenda 2030 delle Nazioni Unite sottoscritta dagli Stati membri europei nel 2015 per lo sviluppo sociale, ambientale ed economico come presupposto per sradicare la povertà e favorire una crescita sostenibile globale entro il 2030. “Le ong accolgono positivamente gli impegni a favore della solidarietà integrati nel nuovo Consenso europeo per lo sviluppo” si legge in un comunicato diffuso da Concord Europe, la piattaforma delle ong europee, che tuttavia “rimangono molto preoccupate dalla strumentalizzazione della cooperazione allo sviluppo per favorire obiettivi legati alla sicurezza, il commercio e la migrazione”.

Non a caso il controllo esterno dei flussi migratori è stato al centro delle discussioni che hanno animato la cena a cui hanno partecipato i ministri degli Interni e dello sviluppo alla vigiglia del Consiglio Affari Esteri. A rappresentare l’Italia c’era Mario Giro, vice ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione internazionale (MAECI), con cui Vita.it si è intrattenuto poco prima del suo ritorno a Roma.

Vice ministro, proviamo ad andare un pò dietro le quinte. Alla vigilia del Consiglio Affari Esteri in cui è stata approvata la nuova strategia dell’UE sulla cooperazione internazionale, i ministri europei degli Interni e dello sviluppo hanno avuto una cena di lavoro. Di cosa avete discusso?

Per ovvi motivi, gli scambi si sono concentrati sulla dimensione esterna della migrazione. Siamo ormai tutti d’accordo che occorra una politica di sviluppo legata alle migrazioni. Per l’Italia significa un uso efficace del Fondo fiduciario dell’UE sull’Africa. Dopo i 50 milioni di euro dati al Niger, ad oggi siamo tra i primi contributori del Fondo. La lotta contro i trafficanti di essere umani è un altro punto condiviso da tutti. Allo stesso tempo, abbiamo ben presente che i traffici sono sempre più globali e che le rotte possono cambiare nel giro di pochi mesi. Due esempi. Il primo è il Bangladesh, da cui partono molti candidati all’emigrazione in direzione della Libia, passando per Dubai e l’Egitto. Il secondo riguarda il Niger, dove il lavoro svolto dai donatori e dal governo nigerino per controllare meglio le frontiere e trattenere i migranti ha permesso di ridurre le partenze da Agadez da 70.000 nel maggio 2016 a circa 6.500 nel gennaio 2017. Si tratta di un risultato importante, anche se i flussi si stanno già spostando verso Diffa, al confine tra Nigeria e Niger, e verso il Ciad, che rischia di diventare la nuova porta d’entrata dei migranti verso Libia, e poi in Europa, con tutte le tragedie e le violazioni dei diritti umani che ne conseguono.

Per ovvi motivi, gli scambi si sono concentrati sulla dimensione esterna della migrazione. Siamo ormai tutti d’accordo che occorra una politica di sviluppo legata alle migrazioni.

Nessuna divergenza quindi tra ministri degli Interni e quelli per lo Sviluppo?

Se si riferisce al tema più scottante di queste settimane, ovvero il caso ong, l’unico ministro che si è espresso contro le organizzazioni non governative, accusandole di collusione con gli scafisti, è stato il rappresentante dell’Interno britannico. Per fortuna, questa posizione non ha trovato nessuna sponda tra gli altri ministri.

Sulla gestione esterna delle frontiere, l’accordo tra Italia e Germania per l’invio di soldati in Niger continua a fare molto discutere….

Non facciamo confusione. Nessuno ha mai parlato di inviare soldati, questo accordo non ha nulla a che vedere con un’operazione militare. La strategia tra Roma e Berlino riguarda il rafforzamento delle capacità delle guardie di frontiera, in particolare a sud della Libia. La proposta dell’Italia e della Germania ha ricevuto un consenso quasi unanime da parte di tutti i ministri presenti alla cena. Certo, sul piano logistico la sfida si annuncia molto complessa.

Per quali motivi?

Avete presente quali sono le frontiere che separano la Libia dal Mali, il Niger e il Ciad? Parliamo di migliaia di chilometri da controllare e dove girano molto gruppi terroristici. Detto questo, gli Stati membri sono tutti d’accordi sulla necessità di rafforzare i controlli delle frontiere terrestre. Essendo i rischi di morire nel Mediterraneo molto più alti rispetto al Sahel, è sempre meglio gestire i flussi a terra che in mare. Di fronte alle sfide immense che ci attendono, l’Italia ha chiesto per il prossimo quadro finanziario pluriennale dell’Ue l’istituzione di un fondo esterno alle migrazioni che sia stabile.

L’unico ministro che si è espresso contro le organizzazioni non governative, accusandole di collusione con gli scafisti, è stato il rappresentante dell’Interno britannico. Per fortuna, questa posizione non ha trovato nessuna sponda tra gli altri ministri.

Intanto la Libia rimane un inferno a cielo aperto per i migranti. Quali le vie d’uscite sul breve termine?

La soluzione è quella che l’Italia sostiene da tempo e che è stata ribadita dal ministro Alfano. Senza un accordo fra libici, sarà difficile uscirne. Ci sono passi avanti con gli incontri tra Serraj e Haftar, tra i presidenti dei due parlamenti, il viaggio di Alfano a Tripoli per spiegare a tutti i soggetti che nessuno deve rimanere escluso. Gli stessi libici sono ormai coscienti che non ci sono alternative. Le divergenze sono ancora significative, ma bisogna insistere.

Abbiamo stime affidabili sul numero di centri di detenzione presenti in territorio libico?

Uno per ogni milizia? Nessuno lo sa. La maggioranza di questi centri, se vogliamo chiamarli così, non sono sotto il controllo del governo Serraj. Finché un accordo non verrà raggiunto, sarà molto difficile intervenire.

In un’intervista rilasciata a Vita alcuni mesi fa, aveva sottolineato le reticenze dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Acnur) di intervenire in Libia, mentre l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) si era dimostrata più disponibile. Qualcosa è cambiato?

Non è una questione di reticenze, ma di regole d’ingaggio e di sicurezza. Entrambe le agenzie vanno laddove sono sicure di poter operare. La differenza tra le due organizzazioni è che l’Oim fa più rimpatri volontari rispetto all’Acnur. A Bruxelles, Federica Mogherini ci ha ricordato che nei primi cinque mesi di quest’anno sono stati compiuti oltre 3.500 rimpatri. Un numero relativamente basso, ma nettamente superiore rispetto a tutti quelli effettuati nel 2016.

La maggioranza dei centri di detenzione libici, se vogliamo chiamarli così, non sono sotto il controllo del governo Serraj. Finché un accordo tra le parti non verrà raggiunto, sarà molto difficile intervenire.

C’è un attore di cui si parla poco: il G5 Sahel. Che dialogo c’è con questa organizzazione regionale sulla gestione dei flussi migratori?

E’ una strutturata molto importante di cui si parla troppo poco. Gli Stati che lo compongono non riescono a controllare in modo adeguato i loro terroritori, mentre i conflitti sociali, la povertà o le minacce del jihadismo rimangono sfide irrisolte. L’esistenze del G5 e i passati che ha compiuto dalla sua nascita ci lasciano ben sperare, ma devono essere aiutati. Non bisogna dimenticare che in quei paesi di transito i flussi migratori tendono a modificare profondamente equilibri sociali ed economici interni di per sè già molto fragili.

Aiutarli, ma a certe condizioni si sente spesso dire a Bruxelles…

Non possiamo rimanere indifferenti agli sforzi che stanno compiendo. I paesi africani come quelli del G5 si sono detti sempre disponibili al dialogo, ma nell’ambito di un partenariato equo. L’idea evocata durante la cena di lavoro dal commissario Avramopoulos di sanzionare chi non collabora è rimasta molto isolata. Anche perché l’assenza di vie legali d’ingresso nell’UE è già di per sè una sanzione e, come ha ricordato la presidenza maltese, quest’assenza non ha fatto altro che favorire i trafficanti e gli scafisti. Qui deve prevalere la logica “more for more”, ovvero aiutare chi dimostra una reale volontà di partnership nel rispetto delle parti.

L’idea evocata durante la cena di lavoro dal commissario Avramopoulos di sanzionare chi non collabora è rimasta molto isolata. Anche perché l’assenza di vie legali d’ingresso nell’UE è già di per sè una sanzione.

Come convincere l’opinione pubblica che aprendo canali legali si avranno meno problemi?

L’opinione pubblica ha capito che chiudendosi, l’Europa non ha fatto altro che aiutare i trafficanti. Ecco perché dobbiamo fare in modo di far venire i migranti di cui abbiamo bisogno e accogliere chi ha bisogno di protezione. Non mi stancherò mai di ripetere che tra il declino demografico europeo e le esigenze delle nostre imprese, avremo bisogno di nuova manodopera.

La domanda vera che dobbiamo porci è perché sia necessario ricorrere ad una manodopera a basso costo, quando la disoccupazione rimane alta, se non altissima. Vogliamo chiudere le frontiere? Bene, chi decide di farlo dovrà poi convincere i nostri govani a raccogliere pomodori. Bisogna guardare la realtà in faccia: i ragazzi e le ragazze europei non vogliono più svolgere determinati lavori, puntano giustamente ad altro. Bisogna quindi aiutarli a formarsi per nuovi mesteri in un mercato sempre più esigente. Questo significa cambiare il nostro sistema educativo e adattarlo ai nuovi mercati. Per l’Italia si somma un problema ancora più grave. Gli ultimi arresti di questa settimana ci dimostrano che la somministrazione di lavoro è diventato un business per le mafie.

Qui deve prevalere la logica “more for more”, ovvero aiutare chi dimostra una reale volontà di partnership nel rispetto delle parti.

La prossima settimana Taormina accoglierà il Summit del G7. Che speranze ci sono di sottoscrivere impegni significativi per l’Agenda 2030?

Le partite riguardano l’ambiente e il commercio, su cui sussistono divergenze importanti con gli Stati Uniti, soprattutto per quanto riguarda le questioni commerciali. Rimango più fiducioso sulla possibilità di difendere gli accordi climatici di Parigi. C’è poi la sicurezza alimentare, che siamo riusciti ad inserire nelle conclusioni del G7, ma senza annunciare nuovi impegni finanziari.

Foto di copertina di J. Massarenti.


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