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Gualtiero Bassetti e quella visita ai carcerati

Il cardinal Gualtieri Bassetti è stato oggi nominato da Papa Francesco presidente della Conferenza episcopale italiana. Il suo motto “In Caritate fundati”. Il nostro collaboratore Giampaolo Cerri ricorda una sua visita improvvisa al carcere di Pianosa

di Giampaolo Cerri

Era un maestro grande, don Gualtiero Bassetti, un educatore vigoroso, di quelli che infondevano forza e coraggio ai giovani preti del Seminario maggiore di Firenze, di cui era rettore. Lo dicevano i molti suoi ex-allievi, che lo ricordavano sempre con affetto. A dargli però quel tratto di pastore, che tutti oggi gli riconoscono, anche nei vari commenti che accompagnano la sua nomina a presidente della CEI, fu senza dubbio l'essersi trovato a tu per tu con la realtà del carcere. Una storia che lui stesso raccontò a Vita, nel novembre del 1995.
Da poco nominato vescovo di Massa Marittima, delizioso borgo medievale che guarda il Golfo di Follonica e un superbo pezzo di Maremma, Bassetti scoprì di avere nella sua piccola diocesi ben due carceri su altrettante isole. Uno, quello di Porto Azzurro, all'Isola d'Elba, teatro di rivolte anche sanguinose come quella di Mario Tuti, e un altro, più lontano, quello di Pianosa.
Se però nel primo, grande penitenziario dell'Elba c'era un cappellano, in quello, più lontano di Pianosa questa figura non c'era, anche perché il carcere era stato trasformato in una prigione di massima sicurezza dopo le stragi del 1993, e c'erano stati trasferiti, in fretta e furia, un bel po' di mafiosi di Cosa Nostra, inaugurandovi il regime carcerario durissimo, 41 bis.
Il vescovo un giorno prese il traghetto da Piombino, raggiunse l'isoletta piatta e verdissima, e si fece accompagnare nei vari bracci. “Che impressione, caro Giampaolo. Ho parlato con le persone attraverso gli spioncini di dieci centrimetri per dieci”, mi disse al telefono quando lo intervistai. Vita era nata da un anno e al vicedirettore Giampaolo Roidi, quella proposta del vescovo dei carcerati piacque subito. Non ricordo da chi ne avessi avuto notizia, con don Gualtiero, c'erano molte amicizie in comune, inclusa quella di un suo compagno di seminario, don Silvano Seghi.
Proporgli di raccontare a un giornale laico quella sua singolarissima pastorale coi carcerati non era per i tempi scontato ma non fu difficile. Bassetti era ed è un uomo semplice. Raccontò il suo turbamento di uomo, dinnanzi alla cruda realtà del carcere, di porte che si richiudono alle tue spalle, prima ancora che altre si aprano, dinnanzi all'angustia degli spazi. Raccontò la sua commozione di fronte alla chiara conversione di alcuni e alla disponibilità al dialogo di altri, e parlò del suo rincrescimento rispetto alla chiusura sdegnata di altri ancora.
Nel racconto entrò anche il caso di un giovane, condannato a una pena lunghissima, che dietro le sbarre aveva ritrovato se stesso e la fede. E che nell'amicizia con quel prete di mezza età aveva trovato una possibilità di dialogo profondo. Giovane ammalato di Aids, che però sarebbe morto di lì a pochi mesi.
Dopo poche settimane dall'uscita dell'articolo, una pagina intera sul bel formato tabloid dell'allora settimanale, arrivò a casa, una lettera del vescovo, affettuosissima, di ringraziamento per come avevo saputo narrare quella sua storia delicata. Prometteva preghiere per me e per la mia famiglia. Incorniciai quella lettera che mi avrebbe accompagnato in tanti traslochi. Lo stemma episcopale che ne costrituiva l'intestazione, quello di Bassetti appunto, recitava: “In Caritate fundati”. Rafforzati nella Carità. Ed era vero.


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