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«Il donatore al centro, senza pensare al ritorno»: parola di fundraiser dell’anno

Roger Bergonzoli è il vincitore dell'Italian Fundraising Award 2017: «è stato in grado di coniugare la tradizione centenaria delle Monache di Clausura del Santuario di Santa Rita da Cascia con le modalità più innovative di raccolta fondi, ponendo al centro le persone e le relazioni rispetto la dimensione economica». Ma in quattro anni ha triplicato la raccolta del 5 per mille e i suoi sostenitori donano anche quando non sono sollecitati

di Sara De Carli

Roger Bergonzoli è il fundraiser dell’anno 2017. Lo ha premiato nei giorni scorsi Assif-Associazione Italiana Fundraiser con questa motivazione: «Roger Bergonzoli si è contraddistinto per essere stato in grado di coniugare la tradizione centenaria delle Monache di Clausura del Santuario di Santa Rita da Cascia con le modalità più innovative di raccolta fondi, ponendo al centro le persone e le relazioni rispetto la dimensione economica. Inoltre in quest’anni si è sempre impegnato a far cresce la professione e la cultura del fundraising condividendo con grande disponibilità le proprie conoscenze e competenze con colleghi e neofiti».

Bergonzoli infatti è responsabile delle attività di raccolta fondi e comunicazione della Fondazione Santa Rita da Cascia, costituita nel 2012 per portare gli strumenti del fundraising moderno in una realtà dalla storia centenaria, rispettandone l’essenza. La Fondazione sostiene in particolare tre progetti: l’Alveare di Santa Rita, una struttura nata nel 1938 come orfanotrofio, accanto al monastero, che oggi è una comunità residenziale per 24 ragazze fuori dalla loro famiglia d’origine e accoglie in diurno, dopo la scuola, una trentina di ragazzi e ragazze del territorio. Poi ci sono la Scuola Beata Teresa Fasce, in Kenya, che assiste 300 bambini l’anno e la Casa d’Accoglienza Madre Alessandra Macajone nelle Filippine, che aiuta 200 famiglie povere con medicine, cibo, vestiti e istruzione.

Come ha incontrato le monache di clausura del Santuario di Santa Rita da Cascia?
Io ero in Apurimac, la ong degli agostiniani. Tutto è iniziato nel 2010, con l’aumento delle tariffe postali per il non profit. Qui a Cascia c’era un solo fundraiser nel 2010, la Provvidenza e una rivista storica a cui veniva allegato un bollettino con il cc postale: quel modello è andato in crisi per i costi quintuplicati. Al Santuario di Santa Rita da Cascia arrivano ogni anno un milione di persone, c’è un albergo, ci sono 60 dipendenti, quel momento di crisi metteva in discussione tutto, ma quando mi hanno cercato, la prima preoccupazione espressa dalle monache è stata “come facciamo ora a continuare ad accogliere le ragazze dell’Alveare, le apette”. Avevano ben chiara la necessità della sostenibilità del progetto caritatevole, questo mi ha fatto dire “ci devo stare”.

E come ha impostato il lavoro?
Ho individuato un percorso su tre assi: la creazione di un’associazione che poi è diventata fondazione; la costruzione di un database (avevano un indirizzario di 400mila nomi ma non un database, era inservibile) e il restyling della rivista. In sintesi, valorizzare ciò che c’era, facendo un passo in più. È andata bene, loro sono state bravissime a dare fiducia. Una cosa su cui ci siamo trovati è la cultura della relazione con le persone: il nostro fundraising è completamente orientato alla costruzione di relazione e alla costruzione di valore aggiunto. I nostri donatori ormai ci sostengono anche quando non li sollecitiamo. Sulle relazioni sono le monache a insegnare a me, non il contrario: la che gente viene qui, da santa Rita, la santa dell’impossibile, tendenzialmente non viene per raccontare che nella sua vita va tutto bene… loro sono molto attente all’ascolto.

Su metodi e risultati, ci può dire qualcosa?
Abbiamo pulito il database, ora abbiamo 330mila anagrafiche superprofilate, divise in due componenti: una parte devozionale, cioè persone che donano per motivi religiosi, come far dire una messa o in memoria di una persona cara, una parte di donatori solidali, ovviamente con un’area di sovrapposizione. Sono 120mila donatori attivi nei 12 mesi. In tutto raccogliamo 3 milioni di euro, come fondazione, quindi per la sola parte solidale, oltre 1 milione di euro all’anno, escluso il 5per mille. Quando abbiamo chiesto per la prima volta il 5 per mille abbiamo raccolto 99mila, nell’ultima edizione siamo arrivati a 300mila: abbiamo triplicato la raccolta in quattro anni.

Cosa vi ha consentito di raggiungere questi risultati?
Lavoriamo molto sul direct, usiamo tanta scrittura calligrafica nella gestione del contatto, ma non la metterei così. La nostra caratteristica peculiare è che facciamo tantissime attività che non hanno un ritorno diretto, le monache hanno questo coraggio: attività che hanno il solo obiettivo di rafforzare la relazione, di essere vicini. Facciamo tanti mailing senza bollettino, ogni mattina mandiamo un sms con gli auguri di buon compleanno e di buon onomastico, alcune persone sono dedicate al contatto telefonico con i donatori, sono tutte attività di cui è difficile quantificare impatto. L’anno scorso abbiamo inviato una cartolina postale con i saluti dal mare da parte delle nostre apette, con la scrittura calligrafica, per i donatori è stata un’emozione, una sorpresa, una gratificazione… nel mailing successivo abbiamo visto l’impatto dirompente che ha avuto, ma non abbiamo mandato la cartolina con il pensiero rivolto a quello. Il donatore da noi non è "al centro", di più, è un pezzo di noi, abbiamo azzerato la distanza, i donatori parlano di famiglia quando pensano al rapporto con noi.

Un altro esempio sono le giornate di “porte aperte”: c’erano anche prima di me, per il territorio, ma non era focalizzato sul donatore. Invitiamo tutti i donatori, ci siamo detti: solo i sostenitori dell’Alveare sono 42mila, chiaro che non verranno tutti né sarebbe possibile, però puoi invitarli tutti e tutti, nel momento in cui sono invitati, si sentono importanti. Sappiamo possiamo ospitare 200 donatori, ma gli altri 41.800 cono comunque coinvolti e informati. Direi che l’elemento caratteristico nostro è che qualsiasi attività è pensata cercando di creare valore aggiunto alla relazione.

Lei è anche docente al corso di religious fundraising, il primo in Italia.
È un corso che per capirci possiamo dire si rivolge agli enti religiosi, ma in realtà non è solo per realtà cattoliche: ci sono gli avventisti, i buddisti, i valdesi… è un valore aggiunto. L'obiettivo è mettere in rilievo le peculiarità di chi ha quei valori alle spalle e capire come il fundraising può essere gestito in questi enti a movente ideale. A dicembre 2017 partirà anche il primo master universitario di I livello in “Fundraising, comunicazione e management per gli enti ecclesiastici e le organizzazioni religiose” attivo nell’anno accademico 2017/2018 presso Italian Adventist University Villa Aurora di Firenze.

Alla cerimonia di premiazione, ha fatto proiettaore una slide con le tre “C” del fundraiser…
La prima “C”, cuore, è tutta sentimento ed emozione: il cuore ci fa capire che questo è davvero uno dei mestieri più bello del mondo e ci fa innamorare della mission. La seconda “C”, cervello, racchiude il fatto che in questo lavoro c’è bisogno di analisi, creatività e formazione. La terza “C”, un po’ irriverente e goliardica, completa le altre due. È al quadrato perché rappresenta sia la fortuna, necessaria in ogni attività, sia l’impegno che questo lavoro richiede per fare la differenza. Fortuna e impegno. Abbiamo la fortuna di fare uno dei mestieri più belli del mondo, ma per meritare questa fortuna dobbiamo metterci tutto l’impegno del mondo.


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