Media, Arte, Cultura

Il futuro è già qui: informazione, connubio fra dati e qualità

"The Future of newpapers" ha visto riuniti a Torino, nella storica sede delle rotative de La Stampa, ospiti prestigiosi provenienti da tutto il mondo per discutere di presente e futuro di riviste e giornali. Si va verso il modello delle «comunità di lettori»

di Marco Dotti

Pensate a un giardino. Fiori bellissimi, alberi, fontane e tanto verde. Piccolo particolare: quel giardino è protetto da mura troppo alte, circondato da un fossato. Una volta dentro, come uscirne? Usa questa immagine Robert Thompson, amministratore di NewsCorp, del gruppo Murdoch, manager con un passato – e che passato – da editor al Wall Street Journal, al Times di Londra e al Financial Times. La usa per descrivere il rapporto che, da una decina d’anni, giornali e media company intrattengono con Google e Facebook.

The Future of newpapers ha visto riuniti a Torino, nella storica sede delle rotative de La Stampa, ospiti prestigiosi provenienti da tutto il mondo per discutere di presente e futuro dell'informazione, di modelli di business e contenuto.

Inevitabili, i convitati di pietra. Da qui, le parole di Thompspn. Amici? Nemici, Facebook e Google? In realtà, spiega Tsumeo Kita, anch’egli ex giornalista, oggi ceo di Nikkei, il principale quotidiano economico giapponese e il più venduto al mondo nel settore finanziario che nel 2015 ha acquisito il Financial Times, non dovremmo considerarli amici. Ma nemmeno nemici. Sono altro e, se ragioniamo sul medio periodo, come 10 anni fa non ci saremmo mai immaginati la loro presenza in questi termini, fra altri 10 non sapremo se Facebook resisterà o che forma assumerà la condivisione di notizie tramite la sua piattaforma. E nemmeno che piattaforma sarà. Ciò che sappiamo per certo è che i ricavi, a oggi, rimangono tutti dentro le mura evocate da Thompson e le strategie vanno ripensate su scala globale e locale. Oltre l'ossessione per l'advertising, ma con occhi al fatto che solo su carta la pubblicità ha un suo vero ritorno d'attenzione. Gli investitori l'hanno capito, un po' meno le media companies.

Se c’è una pessima strategia nel business, anzi una non strategia spiega Jeff Bezos questa è il fatalismo. «Il fatalismo è fatale», racconta il fondatore di Amazon, dal 2013 editore del Washington Post, il più antico giornale di Washington. Quando gli chiedono se legge la copia cartacea o digitale, Bezos sorride. «Abitando a Seattle e non a Washington, leggo quella digitale. La copia cartacea mi arriva qualche giorno dopo, la guardo, la rileggo». Stampare in tutte le principali città americane sarebbe economicamente insostenibile, ma, spiega l’editore che ha riportato in attivo il quotidiano che fu autore dello scandalo Watergate che nel 1974 portò alle dimissioni del presidente Richard Nixon, «la carta ha un futuro». Anzi, per Bezos ha soprattutto un presente. «L’andamento di certe crisi è a “S”: si precipita molto in fretta, si tocca il fondo e si risale».

Gli editori «stanno intravedendo questa risalita, con abbonati che tornano, chiedono qualità, investimenti, meno affollamento di notizie e più incisività nei contenuti». La carta permette sperimentazioni, chiama a una tattilità, muove sensi e ragione. Ma anche emozioni. Per questo, spiega Bezos, «sopravviverà a lungo. Poi, un giorno, diventerà un oggetto di lusso. Qualcosa come un cavallo di razza. Oggi nessuno usa più i cavalli come mezzi di trasporto, ma moltissime persone continuano a possedere un cavallo».

Anche sui dati, Bezos è molto pragmatico. Il team tecnologico del Washington Post è già diventato un modello e i conti del giornale sono tornati in attivo nel 2016. Come? Il fondatore di Amazon, che ogni due settimane tiene con le redazioni una conference call sulle strategie – non sui contenuti – spiega: «bisogna avere al centro l’utente, come nell’e-commerce. Anche se sono due settori diversi, l’approccio è lo stesso. In un giornale, non è la pubblicità a far crescere da sola le entrate. I dati ci dicono che sono le nostre inchieste a far crescere gli abbonamenti». Più qualità, più dati? « Non mi fiderei di chi si lascia guidare solo dai dati. Al tempo stesso non mi fiderei di chi non fosse curioso dei dati. Scegliamo una strada, la percorriamo e i dati ci fanno capire, molto pragmaticamente, come dobbiamo e se dobbiamo tornare indietro o aggiustare la direzione. Ma siamo noi a deciderla, quella direzione». Non certo il numero di followers o di like.

D’altronde, se oggi Facebook è soprattutto una macchina del gossip, come spiega Alex Pentland del Mit, linkedin un serbatoio di curricula e poco più, un nuovo senso sociale dei dati deve venirci proprio dai giornali, ovvero da chi ambisce a guidare le trasformazioni culturali che in qualche modo ci stanno già trascinando verso una data society.

Alla domanda «quali fatti?», si unirà la domanda «con quali conseguenze?». E non è un caso se l’incremento della circolazione di fake news rappresenti una good news per l’impresa editoriale: sempre più lettori cercano luoghi reputazionalmente sicuri dove riporre la propria fiducia. Anche l’incremento nella ricerca di slow news e approfondimenti parla chiaro: la qualità è il bene da incrementare.

Concorda Robet L. Allbritton, cofondatore, presidente e editore di Politico, quotidiano americano capace di trasformare un oggetto di nicchia – il mondo che ruota attorno alla politica americana – in un fenomeno globale, esportato anche in Europa (Politico ha una sede a Bruxelles). I suoi numeri sono piccoli, se visti in termini assoluti, ma Politico è diventato un modello di qualità e di business: «se diecimila persone ci leggono siamo soddisfatti. Non vendiamo pubblicità, ma qualità nell’informazioni». Dedicato soprattutto ai decisori, per Politico «è importante offrire soluzioni».

La qualità è il punto in comune fra le tante opinioni: modelli di business e giornalismo non potranno prescinderne. Jessica Lessin, fondatrice e direttrice di The Information, media online indipendente avviato nel 2013 e dedicato alle nuove tecnologie è chiara: «qualità chiama qualità. Il lettore è disposto a pagare se sa che solo in quel posto troverà ciò che cerca. Un abbonamento a The Information costa 400 dollari l’anno e l’abbonato riceve 2 notizie al giorno. Ma sono notizie molto, molto approfondite. Il flusso non serve se non scava a fondo. Il nostro obiettivo non è scrivere più articoli, ma articoli che valgano questa spesa. Gli abbonati, poi, sono coinvolti in una community: conferenze, conference call, eventi gratuiti che permettono di creare legame».

Ma su tutto, spiega ancora Lessin, c’è la necessità di approfondire e studiare: il lettore ha oramai imparato a distinguere fra ciò che richiede bassa attenzione e ciò che, con un investimento in denaro e tempo, gli può offrire criteri decisivi per orientarsi nel mondo.

Anche se poche persone «digitano oramai "www" c'è comunque modo di costruire valore sul brand. ad esempio con newsletter», prosegue Lessin.

«Noi non siamo Snapchat, noi siamo l’esatto opposto» spiega Jessica Lessin. «Quando dico che i lettori dovrebbero pagare l'informazione di qualità, dico anche che i lettori non pagano solo col portafogli ma anche col tempo: è lì che dobbiamo competere coi social».

Anche i millenials – che notoriamente non sono propensi a pagare l’informazione – mostrano un’inversione di marcia: il 30% di loro si dichiara pronto a pagare in termini economici e di tempo per avere informazione e notizie. Fornire mappe in un mondo che procede a tentoni è il futuro del giornalismo. E il suo presente.


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