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La bellezza insegna: cinque minori non accompagnati scoprono il Museo del Novecento

Cinque minori stranieri non accompagnati hanno visitato il Museo del Novecento insieme a una loro insegnante. Il loro sguardo si è soffermato a lungo sull’uomo che lotta per uscire dalla tomba di Arturo Martini. Le opere d'arte sono divenute l'occasione per parlare di sé. «Un'esperienza che dice forte che la bellezza è per tutti e di non temere di proporre viaggi "agli antipodi"», riflette l'insegnante: «non si tratta di far venire a scuola gli studenti, ma di creare uno spazio per far scuola assieme»

di Alessandra Augelli

Qualche giorno fa sulla soglia del Museo del Novecento di Milano ci sono otto ragazzi con la loro insegnante e sono in procinto di entrare: Abdir, Zakaria, Abdel, Algasim, Hochkson sono giovani studenti, acrobati della vita, migranti sottratti troppo presto alla protezione dei loro cari. Hanno frequentato il Centro Provinciale Istruzione Adulti 5 Milano e oggi a loro, lì sulla soglia del Museo, viene chiesto di “buttarsi” verso qualcosa che gli è stato negato o di cui si sono convinti non essere degni: la bellezza.

Abdir, Zakaria, Abdel, Algasim, Hochkson sono minori stranieri non accompagnati, hanno affrontato da soli traversate assurde, deserti fisici e affettivi. Ora si muovono timorosi in un oceano di stimoli, immagini e parole, in contrasto con la loro pelle e la loro storia. Questi ragazzi ci fanno pensare che la povertà è sì una condizione fisica, da rispettare e rispetto a cui combattere, ma è anche postura interiore. Posizione di retrocessione rispetto alle cose che permettono alla realtà di venirti incontro, di stupirti, di stimolarti a camminare.

Seguire lo sguardo di questi ragazzi fra le opere d’arte è un privilegio: le loro risonanze emotive e cognitive, nell’attraversare le stanze del museo, diventano un modo per viaggiare nelle vicende dell’umanità, prendendo a prestito altri punti focali. Quanto il vissuto della guerra cambia il cuore e la mano di chi dipinge e ritrae: le ombre, le fratture, le discontinuità di chi ha sentito i rumori delle bombe e di chi ha toccato con mano le lacerazioni esistenziali. Lì si è fermato il loro sguardo. Sulla donna assetata protesa verso l’acqua (“La sete” di A. Martini) e sull’uomo che lotta per uscire dalla tomba (“I morti di Bligny trasalirebbero” dello stesso Martini). Il silenzio dei ragazzi, i minuti di contemplazione, lo sguardo commosso e rapito fanno percepire che la loro storia è lì: nel desiderio della ricerca, nella fatica di affrontare il morire, nel senso di ingiustizia che tante volte rimane soffocato.

Il dinamismo di Boccioni nelle sue sculture è entrato in risonanza con il vissuto di questi ragazzi: raccontano di sentirsi così, come con il vento in faccia, con il corpo teso a porre un passo più lungo della propria gamba, con il proprio volto e il proprio essere che si identifica con il movimento stesso. Con Boccioni si sono fermati ad approfondire i propri “stati d’animo” e quelli dei loro familiari: degli addii che hanno dovuto affrontare, dello “spaesamento ma anche nella proiezione in avanti che sperimenta chi è in viaggio”, e dell’ “angoscia di chi resta, nelle linee orizzontali, quasi fosse in una prigione”.

Raccontare se stessi guardando altro, parlare di sé attraverso uno spazio di mediazione esterno è una possibilità preziosa che può ricevere chi quel percorso accidentato e impervio l’ha vissuto ma anche chi lo accompagna, chi cerca di comprenderne qualche frammento.

Queste esperienze, inserite nei percorsi didattici del Cpia5 di Milano, dimostrano che non si tratta di far venire a scuola gli studenti e le studentesse, ma di creare uno spazio per far scuola assieme: quando un insegnante si lascia interrogare dalle loro storie e ribaltare nelle proprie prospettive non può che riconoscersi debitore dello spaccato esistenziale che ha attraversato e non può che constatare di essere stato più volte da loro formato.

Questi ragazzi e ragazze ci dicono che alla bellezza può accedere anche chi è povero e privo di strumenti. Di più. Ci dicono che la vera bellezza la si può cogliere solo in un orizzonte di privazione, quando questa significa abbandono di pre-visioni e congetture. E non vi è apprendimento senza il riconoscimento di un vuoto, di una sete, di una povertà che induca ad un cammino, ad una ricerca, ad una partenza. «L’arte parla all’uomo come entità dello spirito non come individualità specifica e culturale», dice Pietro Cavagna, dirigente scolastico del CPIA 5 «per questo l’arte e la natura ci uniscono come fratelli».

Questa esperienza può custodire per tanti insegnanti ed educatori una rotta: poter incontrare lo sguardo di un “povero” che cerca la bellezza. Poter incontrare la propria povertà e scegliere di volgerla, con gli altri, verso un di più. Non temere di proporre viaggi agli antipodi e fare di questi percorsi la via per scoprirci più umani.

Alessandra Augelli, insegnante Cpia5 e pedagogista, insegna italiano ai minori non accompagnati e segue anche la progettazione educativa. In copertina, Arturo Martini, "I morti di Bligny trasalirebbero" (1935), Museo del Novecento di Milano, Wikimedia Commons


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