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Gli ingegneri migliori? Quelli che capiscono l’impatto sociale

L'Alta Scuola Politecnica ogni anno dà una formazione aggiuntiva d'eccellenza ai migliori cento studenti dei Politecnici di Milano e Torino. Non punta più sulla specializzazione ma sulla comprensione della complessità: è questo che valorizza le loro competenze tecniche e diventa così un asset enorme nei loro curriculum. Il professor Mario Calderini spiega perché

di Sara De Carli

Cento ragazzi ogni anno, fra Torino e Milano, i migliori studenti dei Politecnici delle due città, quelli che hanno sui libretti una media del 29. A loro l’Alta Scuola Politecnica dà una formazione aggiuntiva di eccellenza. E su cosa punta questa formazione aggiuntiva d’eccellenza? Sulla responsabilità sociale. Mario Calderini, ordinario di Economia e organizzazione aziendale al Politecnico di Milano e vicedirettore dell’Alta Scuola, spiega che «la responsabilità sociale è figlia della comprensione della complessità. Per questo con i ragazzi lavoriamo sul ruolo delle religioni nell’innovazione, li facciamo confrontare con temi di filosofia della scienza, li sfidiamo a dare soluzioni di riqualificazione sociale e urbana in aree disagiate, anche lontane e drammatiche. Questo allargamento trasversale delle competenze è la vera sfida».

Perché questa scelta?
La riflessione nasce dalla consapevolezza che l’imprenditorialità sociale sta cambiando, su due fronti. Da un lato c’è il Terzo settore che cresce e si trasforma, dall’altro c’è anche un profit che si sta ibridando, adottando forme di responsabilità sociale più evolute. La CSR non è più l’ultima stanza dell’azienda, ma qualcosa di molto integrato nella funzione strategica dell’impresa. Il profit sta diventando realmente attento a ibridarsi, con una precisa intenzionalità: non più per contenere i danni danni ma intenzionalmente, per produrre impatti sociali positivi. Sottolineo con forza l’intenzionalità per rispondere fin da subito all’obiezione di chi dice che qualunque impresa fatta bene produca impatto sociale. Avendo sullo sfondo questa tendenza, una grande scuola di ingegneria e management deve occuparsi di questa trasformazione. L’abbiamo fatto in due modi, lavorando sulla funzione ricerca, con la nascita di Tiresia, e sulla didattica.

Sulla didattica cosa si può dire?
Abbiamo aperto percorsi nella laurea specialistica, gli ingegneri gestionali della social innovation e della Sustainability. Pensavamo a un esperimento di nicchia, invece c’è stata un’esplosione, al mio corso siamo partiti in 40 ora siamo in 120, la specializzazioni in innovazione sociale è diventato uno dei corsi importanti del Politecnico. Il successo della proposta è stato così importante che abbiamo chiesto perché agli studenti: hanno evidenziato due elementi fondamentali, il primo è quello di una vocazione personale, gli studenti mediamente vanno verso la social innovation perché vogliono avere un profilo di competenze il più vicino ai loro valori personali, che consenta loro di cercare lavori in cui questa vicinanza si realizzi. La seconda questione è che comincia a diffondersi la consapevolezza – vera, data da numeri – che l’impresa sociale non è più qualcosa di laterale ma è l’impresa del domani. Gli studenti guardano alla CSR d’impatto, il mondo finanziario che va verso la finanza di impatto, alle start up sociali, pensando che l’ibridazione non sarà un percorso parallelo ma una componente importante del mercato del lavoro. I primi laureati sono dell’anno scorso, certamente si stanno profilando una serie di opportunità molto rassicuranti in termini di concreta occupazione.

Perché invece avete scelto di puntare sulla responsabilità sociale per l’Alta Scuola Politecnica?
Dal 2005 all’altro ieri l’offerta formativa era indirizzata a un aumento della specializzazione tecnica, oggi invece c’è una rivisitazione in corso, nella direzione di prendere questi grandi talenti tecnologici e indirizzarli verso l’impatto scoiale e la responsabilità sociale, dando loro strumenti aggiuntivi intesi a comprendere le complessissime relazioni fra tecnologia, innovazione, impresa, sistemi economici e sociali. Il meglio che possiamo fare per i nostri migliori studenti è aggiungere alla loro preparazione tecnica una comprensione che gli consenta di massimizzare l’impatto sulla società. Questi nostri studenti normalmente vanno a occupare altissime posizioni in giro per il mondo, il di più che possiamo fargli è la capacità di gestire l’impatto sociale di ciò che fanno. Non specializzazione ma allargamento delle competenze, questa è la chiave.

Dal vostro osservatorio, quali sono le competenze future più necessarie?
La responsabilità sociale non è una soft skills, una patina, un mantra da ripetere. L’idea nostra è che la responsabilità sociale sia figlia della comprensione della complessità, se uno capisce la complessità non può non essere socialmente responsabile. La carta in più degli studenti che ho visto avere più successo è questa, sono quelli che hanno un’attenzione alla complessità del mondo e che in questo modo valorizzano le loro competenze tecniche. È un asset enorme nei loro curriculum, capire la complessità e sapersi adattare alle difficoltà sociali che essa comporta. Insegnare come si fa una presentazione o come si gestisce un colloquio di lavoro è irrilevante per questi studenti, ciò che fa la differenza è invece ad esempio se sanno gestire il ruolo delle religioni nell’innovazione: per questo proponiamo loro grandi pezzi di filosofia della scienza, gli sottoponiamo problemi di aree disagiate, anche lontani, ad esempio trovare soluzioni per la riqualificazione sociale e urbana di aree disastrate. Quella consapevolezza poi resta, nelle qualità umane e nelle skills relazionali.

Photo by Riccardo Annandale on Unsplash


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