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Esclusivo. Faustin-Archange Touadéra : “I centrafricani sono contrari all’impunità”

È considerato uno dei paesi più poveri e instabili dell’Africa. Alla sua guida, c’è un professore di matematica eletto nel 2016 sotto gli applausi della Comunità internazionale per dirigere uno Stato che controlla soltanto due province su 14. Nonostante le violenze che oppongono i gruppi armati e oltre il 20% della popolazione costretta alla fuga, Faustin-Archange Touadéra ribadisce in questa intervista esclusiva rilasciata a Vita.it e un pool di media africani la sua “volontà di ristabilire la pace e la sicurezza in Centrafrica attraverso il dialogo e un’accelerazione del programma di disarmo”.

di Joshua Massarenti

Come dirigere un paese dove la stragrande maggioranza del territorio, scosso da atti di estrema violenza perpetrati da gruppi armati, sfugge al controllo di uno Stato alla ricerca disperata di pace e di sicurezza? Questa la sfida immensa che deve affrontare il Presidente della Repubblica centrafricana, Faustin-Archange Touadéra, eletto nel marzo 2016 alla guida di questo paese situato nel cuore dell’Africa, sotto gli applausi della Comunità internazionale. Alla luce della situazione drammatica in cui versa il paese, le prime elezioni libere dello scorso anno sembrano un ricordo lontano. Dal settembre 2016, una nuova ondata di violenze sta mettendo a durissima prova i processi di pace e di disarmo che il Presidente Touadéra, sostenuto dai partner internazionali, cerca di portare avanti.

Da Bria a Bangassou, passando per Batangafo, le persecuzioni sulle popolazioni civili e gli scontri tra gruppi armati Seleka che pretendono difendere la minoranza musulmana, e gli anti-Balaka a maggioranza cristiana, hanno raggiunto un tale livello di violenza che il vice Segretario generale delle Nazioni Unite per gli Affari umanitari, Stephen O’Brien, parla ormai di “segnali precusorsi di genocidio”. Sotto gli occhi di 12.500 caschi blu della Missione dell'Onu in Centrafrica (Minusca), il cui mandato sarà rivisto in autunno, il popolo centrafricano vive un'autentica catastrofre umanitaria. Secondo OCHA, ad oggi si contano oltre 600mila sfollati e 480.000 rifugiati centrafricani scappati nei paesi limitrofi, tra cui il Camerun, Ciad e Repubblica democratica del Congo. “In totale, il 20% della popolazione centrafricana è sfollata o rifugiata”, ricorda Medici senza frontiere.

Tutte le fasce sociali centrafricane dicono no all’impunità e chiedono una riparazione rispetto alle violenze perpetrate in RCA dal 1 gennaio 2003.

Nonostante la grande instabilità e la situazione umanitaria catastrofica in cui versa il paese, Touadéra rimane fermo sulla “nostra volontà di ristabilire la pace, la sicurezza, la riconciliazione e la coesione sociale in Centrafrica attraverso il dialogo e un’accelerazione del programma di disarmo”. E’ quello che assicura il capo di Stato centrafricano in questa intervista esclusiva concessa a Vita.it nella quale si esprime a lungo sull’accordo di pace firmato a Roma nel giugno scorso dai gruppi armati – una prima assoluta – grazie alla mediazione della Comunità di Sant’Egidio e una roadmap sottoscritta a Libreville (Gabon) il 17 luglio dalla Comunità economica degli Stati dell'Africa centrale (Ceeac), il Ciad, il Gabon, l'Angola e il Congo, su iniziativa dell’Unione Africana.

I ritardi accumulati dal programma di disarmo, in parte dovuti al timore dei principali responsabili dei gruppi armati di venire processati in base alle indagini che dovrà condurre la Corte penale speciale sui crimini commessi in RCA dal 2003, pongono il potere di Bangui di fronte a un dilemma che divide anche i partner internazionali del Centrafrica: tra la giustizia e l’impunità, cosa conviene privilegiare per instaurare la pace? Su questa sfida cruciale, il Presidente centrafricano non ha dubbi: “sia la roadmap che l’accordo di Sant’Egidio fanno riferimento alle risoluzioni prese dal Forum di Bangui nel maggio 2015. E queste risoluzioni sono molto esplicite! Sono il frutto di una consultazione portata avanti con tutte le fasce sociali centrafricane che dicono no all’impunità e che chiedono una riparazione rispetto alle violenze perpetrate in RCA dal 1 gennaio 2003”.

Dall’accordo di Roma firmato il 19 luglio sotto la mediazione di Sant’Egidio alla Roadmap sottoscritta a Libreville il 17 luglio su iniziativa dell’Unione Africana, passando per la riunione che si è tenuta a Bruxelles il 21 con i partner regionali e internazionali del Centrafica, quali sono le ragioni di un’agenda diplomatica così intensa? E in che misura l’accordo di Roma e la roadmap di Libreville sono complementari?

Quest’agenda risponde alla nostra volontà di ristabilire la pace, la sicurezza, la riconciliazione e la coesione sociale in Centrafrica attraverso il dialogo e un’accelerazione del programma di disarmo. Le discussioni che ho iniziato con i gruppi armati vanno letti in questo senso. Oggi esprimo la mia soddisfazione per il fatto che questo cammino, che a Roma si è iscritto sotto la mediazione della Comunità di Sant’Egidio e con l’appoggio delle Nazioni Unite, sia stato accettato da tredici gruppi armati che hanno firmato un accordo molto importante. E’ il coronamento degli sforzi promossi attraverso il Comitato consultivo incaricato dei seguiti del programma di disarmo al quale hanno aderito i gruppi armati. Non avendo potuto partecipare ai negoziati che si sono svolti nella capitale italiana, c’è solo un movimento che non ha firmato l’accordo di Roma, ma si è detto pronto a farlo.

Come sapete, quella di Sant’Egidio è una delle tante iniziative che hanno accompagnato il dialogo tra tutte le parti in causa nella crisi centrafricana. All’indomani dell’accordo di Sant’Egidio, ho voluto scongiurare il rischio di proseguire questo processo in ordine sparso invitando a Bruxelles i mediatori della crisi e i partner regionali e internazionali della RCA per adottare un approccio congiunto e coerente. Il risultato è la roadmap per la pace e la riconciliazione firmata il mese scorso a Libreville, in Gabon. Su iniziativa dell’Unione Africana, questa roadmap riconosce pienamente i contenuti dell’accordo di Roma, nonché l’iniziativa di pace dei parlamentari centrafricani e le conclusioni del Forum nazionale di Bangui del 2015. Considero quindi la roadmap di Libreville e l’Intesa di Sant’Egidio complementari.

Come giudica il ruolo di Sant’Egidio in questa fase politica?

A monte, i responsabili della Comunità hanno organizzato una serie di incontri con i vari gruppi armati attraverso un metodo di lavoro specifico a Sant’Egidio, al quale questi stessi gruppi hanno aderito progressivamente. Un Comitato incaricato dei seguiti dell'accordo di Roma vedrà presto la luce per assicurarne l’operatività.

Su iniziativa dell’Unione Africana, la roadmap di Libreville riconosce pienamente i contenuti dell’accordo di Roma, nonché l’iniziativa di pace dei parlamentari centrafricani e le conclusioni del Forum nazionale di Bangui del 2015.

In che modo questo Comitato verrà associato alla roadmap di Libreville? Non le pare che tutte queste iniziative rischiano di generare confusione?

Non affronterei il problema in questo modo. Una serie di impegni sono stati sottoscritti nell’ambito dell’Intesa di Sant’Egidio, penso ad esempio al programma di disarmo nel quale si sono impegnati i gruppi armati firmatari coinvolti nel Comitato consultativo incaricato dei seguiti del medesimo programma che segue il suo corso, e questo nonostante le tergiversazioni di alcuni di questi gruppi armati. Questi impegni sono stati in seguito riconosciuti dalla roadmap di Libreville che consentirà di perseguire le azioni portate finora avanti con l’obiettivo di facilitare il dialogo e il processo di pace.

Signor presidente, è possibile raggiungere un equilibrio tra la giustizia e la pace in RCA?

Sia la roadmap che l’accordo di Sant’Egidio fanno riferimento alle risoluzioni prese dal Forum di Bangui nel maggio 2015. E queste risoluzioni sono chiare! Sono il frutto di una consultazione portata avanti con tutte le fasce sociali centrafricane che dicono no all’impunità e che chiedono una riparazione rispetto alle violenze perpetrate in RCA dal 1 gennaio 2003. Ed è sulla base delle risoluzioni del Forum di Bangui che è stato istituita nel giugno 2015 la Corte penale speciale incaricata di giudicare i crimini perpetrati in Centrafrica.

Nonostante alcuni progressi, le violenze si sono intensificate in questi ultimi mesi, come a Bangassou dove la città è sotto il controllo delle milizie anti-balaka che perseguitano la comunità musulmana. Come spiega questa nuova ondata di persecuzioni? Esiste secondo lei un legame tra il recente insediamento della Corte penale speciale e il timore dei responsabili dei gruppi di armati di finire sotto processo?

Questo legame è probabile, ma non giustifica tutto. Il ritiro delle forze speciale statunitensi e dei soldati ugandesi che erano impegnati nell’est del paese nella lotta contro il movimento ribelle ugandese LRA (Lord’s Resistance Army, ndr) ha creato un vuoto. A questo si somma la predazione dei gruppi armati e il grande banditismo che continuano a seviziare in molte province, special modo nell’ovest del paese. Purtroppo, dal momento in cui la gente è armata, i rischi di violenze contro le popolazioni civili aumentano. Infine, non possiamo sottovalutare la volontà di alcune persone di perpetrare atti di violenza a fini politici per far credere che in Centrafrica tutto rimane bloccato, e questo nonostante i risultati ottenuti negli ultimi mesi attraverso il dialogo con i gruppi armati.

Non possiamo sottovalutare la volontà di alcune persone di perpetrare atti di violenza a fini politici per far credere che in Centrafrica tutto rimane bloccato, e questo nonostante i risultati ottenuti negli ultimi mesi attraverso il dialogo con i gruppi armati.

Al di là dei risultati, gran parte del territorio centrafricano sfugge al controllo dello Stato centrafricano. Non le sembra urgente accelerare il programma di disarmo?

Lo stiamo facendo! Tutta la strategia del programma è già in atto e un progetto pilota è stato lanciato per reintegrare gli ex combattenti. Oggi i 14 gruppi armati hanno accettato di aderire a questo programma e il disarmo dei combattenti rimane una priorità assoluta per accelerare il processo di pace e rafforzare la sicurezza sul territorio centrafricano.

Si ha un’idea del numero di combattenti che vanno disarmati?

Preferisco non pronunciarmi. La verifica delle stime fornite da ogni gruppo armato al presidente del Comitato consultativo incaricato dei seguiti del Programma di disarmo e alla sua squadra è ancora in corso.

L’UE è molto impegnata sulla crisi centrafrica. Che cosa si aspetta oggi da Bruxelles e dagli Stati Membri europei?

Salutiamo positivamente gli sforzi dell’Unione Europea a favore del nostro paese, special modo in occasione della Conferenza dei donatori che si è tenuta a Bruxelles nel novembre 2016. I nostri partner europei continuano a sostenere in modo unanime la nostra strategia di ricostruzione. Oggi li chiediamo di fare tutto il possibile affinché le promesse fatte a Bruxelles possano essere mantenute e consentirci di disporre delle risorse finanziarie necessarie per appoggiare i programmi prioritari dei prossimi tre anni. E’ urgente dare risposte concrete alla popolazione centrafricana. I fondi concessi dalla Commissione europea durante la recente missione del direttore generale della cooperazione dell’Ue per lo sviluppo, Stefano Manservisi, vanno nella direzione giusta. Ma la strada è ancora lunga. Mezzi supplementari sono ad esempio necessari per la ristrutturazione, la formazione e gli equipaggiamenti militari delle nostre forze di difesa e di sicurezza.

Salutiamo positivamente gli sforzi dell’Unione Europea a favore del nostro paese, [ma] è urgente dare risposte concrete alla popolazione centrafricana.

Al termine della Conferenza dei donatori di Bruxelles, la Comunità internazionale aveva promesso due miliardi di euro di aiuti per sostenere il suo piano di ricostruzione. A quasi nove mesi di distanza, qual'è l'impatto concreto che si è verificato sul terreno?

Stiamo mettendo in piedi un segretariato permanente che ci aiuterà a mobilitare le risorse e lavorare sui progetti che devono essere implementati. Ad oggi, 87% dei fondi promessi a Bruxelles sono stati confermati, di cui il 57% sono in fase di sborso. Lanciamo un appello ai donatori che si sono impegnati in novembre di accelerare le procedure di attribuzione dei fondi. Numerosi progetti sono già stati avviati, come a Bambari e Bangui. Insomma, i progressi ci sono, ma bisogna agire rapidamente perché l’attesa del popolo centrafricano è molto alta. Penso in particolare a Bangassou e a Bria, dove in seguito alle violenze le popolazioni locali necessitano in tutta urgenza di una risposta umanitaria.

In questi ultimi anni l’Italia si è sempre implicata in Centrafrica. Come giudica le relazioni tra i due paresi?

Molte buone! Osserviamo una presenza crescente della cooperazione italiana nel nostro paese, special modo attraverso dei progetti umanitari e di sviluppo nei settori della salute, dell’educazione, dell’economia o dell’agricoltura. La mia visita ufficiale in aprile 2016 a Roma e quella del Vice ministro degli Affari Esteri, Mario Giro, in Centrafrica nel mese di ottobre successivo sono state occasioni importanti per le relazioni tra i nostri due paesi. Il nostro auspicio è che questo legame venga rafforzato.

Osserviamo una presenza crescente della cooperazione italiana nel nostro paese, special modo attraverso dei progetti umanitari e di sviluppo nei settori della salute, dell’educazione, dell’economia o dell’agricoltura.

Di recente ha effettuato due visite di Stato a Malabo, in Guinea Equatoriale, e a N’Djamena, in Ciad. Qual’è l’importanza dei paesi della regione per il processo di pace che sta conducendo nel suo paese?

La Repubblica centrafricana è un paese che opera per la pace e per mantenere relazioni di buon vicinato con i paesi frontalieri. Abbiamo bisogno dell’aiuto di tutti per ritrovare la stabilità. Delle commissioni miste sono state istituite con i nostri vicini per affrontare tutta una serie di questioni, tra cui i rifugiati e subbugli che possono verificarsi lungo le nostre frontiere che sono molto estese. Mi congratulo con il fatto che le relazioni rimangono complessivamente molto buone. Del resto, il Centrafrica fa parte di una sotto-regione minacciata che condivide le stesse sfide con i paesi frontalieri.

In novembre, ad Abidjan, si terrà il prossimo Summit UE-Africa. Uno dei temi principali sarà la gioventù africana, in legame con i flussi migratori irregolari e le loro cause profonde. Quali sono le sue attese da questo vertice?

Oggi i giovani rappresentano il 70% della popolazione africana. Si tratta di una sfida di estrema importanza in tema di accesso al lavoro e all’educazone. Abbiamo il dovere di dare risposte concrete ai nostri giovani, in caso contrario gli sforzi messi in atto per lo sviluppo del continente e la stabilità dei paesi africani rimarranno lettera morta. I drammi di migliaia di giovani coinvolti in conflitti o costretti a rischiare la propria vita nel deserto e nel Mediterraneo per una vita migliore riflettono purtroppo molto bene la strada che rimane da compiere. Il Summit Ue-Africa sarà un’occasione importante per dare delle indicazioni a quello che si deve fare. Ne va del futuro di una generazione che aspira al benessere, nella pace e la stabilità.

Intervista pubblicata anche su Le Confident (Repubblica centrafricana), Sud Quotidien (Senegal), LEs Echos du Mali, Le Nouveau Républicain (Niger), L'Autre Quotidien (Benin), Mutations (Camerun) et Infos Grands Lacs (RDC, Rwanda e Burundi).

Foto di copertina: Issoufa Sanogo/Getty Images.


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