Attivismo civico & Terzo settore

I dati sono tutto: così la società civile sconfiggerà l’azzardo

Perché è fondamentale per la tenuta del sistema sociale che i numeri (veri) sull'azzardo vengano finalmente resi pubblici. Se ne è discusso oggi al convegno "Azzardo e istituzioni" presso la Caritas di Milano. Ecco il nostro intervento

di Marco Dotti e Redazione

Lo stato di salute di un’istituzione si vede dalla qualità delle sue risposte.

Il 31 luglio scorso, abbiamo lanciato un’azione di attivismo civico. Dalle pagine di Vita.it abbiamo chiesto alla società civile (sindaci, amministratori locali, assessori, consiglieri comunali) di domandare ufficialmente ai Monopoli di Stato tramite le procedure di accesso agli atti della Pubblica Amministrazione i dati – scomposti per tipologia di “gioco”, non manipolati né interpretati – relativi al flusso di denaro che, tramite l’azzardo legale, investe territori: quei numeri ci sono, tutti lo sanno; ma tutti fingono di non saperlo.

La risposta della società civile è stata – per alcuni, ma non per noi tutti – sorprendente e davvero grande. Migliaia le richieste. Richieste nate da un bisogno fondamentale, che Luigi Einaudi sintetizzava così: «conoscere per deliberare». Agli amministratori, variamente sottorappresentati o sovrarappresentati ma forse mai davvero rappresentati, in questi anni da Roma era stato chiesto il contrario: di deliberare senza conoscere, accettando deleghe in bianco, casomai in cambio di qualche tassa di scopo o bonus su un controllo di mera forma che, senza quei dati, non potrà mai essere effettivo.

Con quei dati in possesso dei comuni – e questo è forse il punctum dolens –i lobbystiti sanno che perderebbero gran parte dei loro ricorsi al Tar o al Consiglio di Stato contro le delibere no slot.

Premesso che questi dati non sono coperti da segreto di Stato, ma evidentemente “scottano”, e dovrebbero pertanto essere pubblici e condivisi di default con chi, sul territorio, garantisce e tutela pubblica sicurezza, salute, ordine pubblico, la risposta delle istituzioni – rappresentate dall’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, qui sotto trovate una delle lettere inviate ai sindaci – ha mostrato uno stato di salute, in rapporto al tema dell’azzardo legale, quanto meno precario.

In sostanza, alla richiesta di rendere pubblici dati sui flussi territoriali dell’azzardo e di renderli fruibili a chi, non solo si trova a fronteggiare un problema sociale enorme ma vuole capire quantità e, di conseguenza, qualità e “natura” denaro che investe i territori che amministra la risposta è stata “arrivederci e grazie”.

I Monopoli di Stato – che, ricordiamolo, dipendono dal Mef e sono l’istituzione preposta al controllo dei flussi di denaro legati all’azzardo legale – sostengono di non avere alcuni dati che sarebbero in possesso solo della Corte dei Conti e dei Concessionari perché legati a contratti di natura privatistica (e già qui si mostra come l’architettura dell’azzardo legale sia porosa e fragile), dall’altro di non avere tempo di rispondere a tutte le richieste di accesso generalizzato agli atti. I sindaci, ricordiamolo, sono deputati a gestire le emergenze sul territorio. Ma i dati, ahinoi, non li possono avere con celerità.

Infine, con lettera non protocollata stavolta non indirizzata ai sindaci, ma a Vita.it, che nella richiesta e negli articoli che ne parlavano si sarebbe fatta “confusione fra raccolta e spesa effettiva”. «Quanto la parola è schiava, tutto è schiavo», insegnava il filosofo francese Jacques Ellul. E sulle parole, lo sappiamo, si è “giocata” gran parte della partita per istituzionalizzare l’azzardo in Italia. I contabili abitano in un Paese delle Meraviglie di Lewis Carroll:

“Quando uso una parola”, Humpty Dumpty disse in tono piuttosto sdegnato, “essa significa esattamente quello che voglio – né di più né di meno. “La domanda è”, rispose Alice, “se si può fare in modo che le parole abbiano tanti significati diversi”.
“La domanda è”, replicò Humpty Dumpty, “chi è che comanda – tutto qui”.

Usciamo da Wonderland e torniamo nel mondo.

Ciò che chiediamo è conoscere, ora, senza alterazioni l’importo di ciò che gli illustri contabili chiamano “raccolta” e chi ha a cuore la società civile più che il suo sfruttamento chiama, semplicemente, fatturato dell’impresa-azzardo. Conoscerlo non in termini generali – sui quali, comunque, anche lì qualcosa non torna: per esempio quanto ha incassato lo Stato nel 2017? 10 miliardi e 75 milioni come sostengono nel loro Libro Blu i Monopoli di Stato o 9 miliardi? – ma nelle loro articolazioni territoriali: comune per comune, città per città, quartiere per quartiere.

Secondo i Monopoli di Stato, il problema non esiste perché gli italiani spenderebbero in azzardo poco più di 1 euro al giorno a testa. Non scherziamo.

Bisogna ammettere che dentro il cosiddetto “gioco legale” c’è una voragine. Una voragine in cui dobbiamo guardare, per evitare che il Paese ci precipiti definitivamente dentro.

Chiediamoci: sono stati quelli che il Ministero della Salute chiama “ludopatici” a far aumentare la spesa? Il 2016 è stato effettivamente un anno di svolta (Pil + 0,9%) nella lunga recessione che ha colpito l’Italia dopo la crisi dello spread. Quindi, i “ludopatici” (mi scuso ancora con chi sa che questo non è il termine né tecnico, né scientifico per definire patologia e problemi), come tutti gli italiani, potrebbero essersi trovati in tasca qualche euro in più da spendere. Ma è assolutamente implausibile attribuire un tale aumento delle somme giocate da un anno all’altro all’aumento del reddito disponibile dei ludopatici o ad una recrudescenza della febbre da gioco. Chiediamoci ancora: e se il riciclaggio di denaro sporco avvenisse invece grazie all’azzardo, il balzo sarebbe allora pienamente giusticato. Potremmo quasi considerarlo un “buon segno” per la ripresa economica italiana.

Infatti, l’economia in nero è la più flessibile in assoluto. La prima a fermarsi, quando le cose vanno male. La prima a ripartire, quando invece le cose vanno bene. Ma l’economia in nero ha bisogno di un posto dove poter ripulire il contante prima di immetterlo nel circuito bancario, dove i movimenti sono tutti tracciati. Le sale da gioco e le slot sono oramai tra i pochi luoghi rimasti in Italia dove le carte di credito possono anche non entrare e il contante regna sovrano. Se non si è particolarmente sfortunati, quindi giocando alle slot si paga un costo del 25%, che si riduce al 12,5% con le Vlt, e il contante è ripulito (sostanzialmente punti 100 per vincere 75). Il sospetto quindi è che l’azzardo legale sia diventato uno dei modi più importanti con cui vengono “sbiancati” i redditi illegali. Le indagini della magistratura d’altro canto aiutano ad intuire la forma del mostro che si nasconde nella nebbia.

Anche il fatto che la magistratura documenti casi di cosche mafiose e di ‘ndrine che diversificano nel business dell’azzardo legale non rappresenta né una novità stori
ca né una peculiarità italiana. Eppure noi
 in Italia siamo costretti a sentir ripetere da quelle stesse istituzioni che ci negano i numeri il falso e infantile sillogismo che dovemmo ringraziare la “legalizzazione” dell’azzardo, altrimenti avremmo milioni di concittadini vittime dell’azzardo illegale.

Purtroppo, se rimaniamo fermi alla dimensione criminale
 del fenomeno, non riusciamo a fare passi
 avanti. E non farci fare passi avanti è quello che vogliono lobbysti, funzionari e operatori di settore degni, nella migliore delle ipotesi, del Candide di Voltaire.

Le inchieste della magistratura sono come lampi nella nebbia. Per diradare la nebbia ci vorrebbero i “dati” della spesa in gioco a livello di singola città, di singolo quartiere, di singolo bar. In questo modo la cittadinanza stessa, i sindaci potrebbero aiutare a comprendere la vera natura economica del fenomeno. Limitandoci ad esempio ai dati provinciali è evidente che città popolose come Roma, Milano, Napoli svettino in cima alla classifica delle somme giocate. Ma se dividiamo le somme giocate alle macchinette per il numero di abitanti o ancora meglio per il reddito imponibile ai fini Irpef (i dati sono forniti rispettivamente dall’Istat e dal Ministero dell’Economia), la classifica muta radicalmente ed in testa balza Prato con una percentuale di giocato pari al 16% del reddito imponibile (dichiarato), cioè circa 550 milioni di euro. È tutto frutto di “ludopatia” o c’è qualcos’altro? Per avere un termine di paragone a Pavia, che è stata per anni al centro delle analisi e dell’attenzione mediatica, tale percentuale è pari al 7% (cioè circa 600 milioni), mentre il dato medio nazionale è pari al 6,2% (pari a circa 26 miliardi).

Se guardiamo alla Lombardia una città come Bergamo presenta livelli di spesa in gioco d’azzardo decisamente preoccupanti. È vero che a Pavia (per anni il nostro “benchmark” della vergogna) si gioca mediamente di più a livello pro-capite, ma in rapporto al reddi to Bergamo balza sopra (con oltre il 7,5%, pari a circa 1,2 miliardi di euro). Ma da questo punto di vista la provincia messa peggio in Lombardia è Sondrio con quasi il 10% del reddito imponibile giocato alle macchinette (circa 230 milioni di euro).

Volgendo lo sguardo ad altre realtà nazionali dove è presumibile un alto livello di economia in “nero”, si notano presenze anomale di esercizi abilitati al gioco d’azzardo. A Caserta la percentuale di reddito imponibile giocato alle macchinette supera il 9%. Lo stesso accade per la provincia di Olbia-Tempio e quella di Salerno. Cosa hanno in comune. Se guardiamo alla Lombardia, la provincia industriale per eccellenza, quella di Brescia, svetta sopra le medie nazionali con una percentuale di giocato sul reddito imponibile superiore all’8% (circa 1,4 miliardi di euro) e cittadine come Desenzano del Garda con livelli altamente tossici di denaro.

Ecco solo un esempio di quello che si potrebbe capire, avendo una chiara mappatura della “geografia economica” dell’azzardo oramai qualificatosi come vero e proprio “predatory gambling”.

I Monopoli hanno i dati e li devono liberare. Non possiamo credere che non lo abbiano, mentre lobbysti e stakeholder for profit . E non possiamo credere non li abbiamo le istituzioni rappresentative di questo Paese. Sarebbe un vulnus istituzionale enorme.

Lo stato di salute di un’istituzione si vede dalla qualità delle sue risposte. Se il silenzio vale come risposta, dovremmo concluderne che la frattura fra istituzioni e società civile rischi seriamente di diventare totale e irrecuperabile.


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