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Cooperazione & Relazioni internazionali

Ong e centri di detenzione in Libia, perchè diciamo no

Dopo l’annuncio di uno stanziamento di 6 milioni di euro della Cooperazione italiana aperto alle Ong per intervenire nei "campi di detenzione" in Libia, Concord Italia, il network delle Ong in Europa, ribadisce che l’unica risposta è la chiusura di questi centri. «Quello che sta succedendo nei centri di detenzione è una ferita inaccettabile» spiega Francesco Petrelli, portavoce di Concord Italia, «è una violazione dei diritti umani che è in contraddizione con tutti i principi dell’Unione Europea»

di Ottavia Spaggiari

Aveva annunciato uno stanziamento di 6 milioni di euro della Cooperazione italiana aperto alle Ong per intervenire nei «campi di detenzione» in Libia il viceministro degli Esteri, Mario Giro, fissando termini brevissimi per la pubblicazione del bando, addirittura entro settembre. Concord Italia, il network delle Ong in Europa, ha ribadito però che l’unico destino accettabile per questi lager è che vengano chiusi. «Tutti hanno denunciato la situazione nei campi come una cosa abominevole, persino Junker», spiega Francesco Petrelli, portavoce di Concord Italia.

Dall’osservatorio di Concord qual è stata la reazione delle Ong all’annuncio del viceministro degli Esteri?

In questo momento tutto ciò che può riaprire l’interlocuzione tra Ong e istituzioni dopo tutto quello che è accaduto negli ultimi mesi è positivo. Il viceministro in questo senso sta sicuramente facilitando la ripresa di un dialogo. Detto ciò, noi siamo per lo smantellamento di quei campi.

Qualcuno ha addirittura parlato di "proposta indecente" e "patto con il diavolo"…

La Libia è sicuramente un banco di prova sulla coerenza dell’Italia e dell’Europa a livello etico e morale. Tutti hanno denunciato la situazione nei campi come una cosa abominevole, persino Junker. Quello che sta succedendo nei centri di detenzione è una ferita inaccettabile, una violazione dei diritti umani che è in contraddizione con tutti i principi dell’Unione Europea. Lo smantellamento deve avvenire con il coinvolgimento dell’Unhcr, secondo condizioni ed obiettivi chiari che garantiscano il riconoscimento della protezione internazionale a chi ne ha diritto e un rimpatrio sicuro a chi deve essere rimpatriato. Se poi questo significa una re-distribuzione di chi riceve lo status di protezione tra diversi Paesi europei, bisogna che non accada ciò che è accaduto con il piano di re-location del 2015, quando le persone sono rimaste bloccate in Italia e in Grecia per tempi lunghissimi.

Quali sono i prossimi passi per il processo di smantellamento dei centri di detenzione?

Prima di tutto esercitare una pressione politica sulla Libia. Noi vogliamo delle condizioni che siano in coerenza con i principi etici e sociali dell’Italia e dell’Europa. Bisogna poi considerare il contesto estremamente complesso, in cui gli stessi libici sono a rischio umanitario. Si tratta di una situazione che va stabilizzata, bisogna attivare e promuovere un processo di institution building. È importante che continuiamo a mantenere alta l’attenzione su ciò che sta accadendo nei campi, ma bisogna aprire un tavolo di coordinamento, facendo attenzione a considerare l’intero contesto e non solo ciò che avviene in Libia. Si deve stare molto attenti a non creare blocchi interni al continente, blindando le frontiere in Africa, nel tentativo di frenare l’accesso all’Europa. Questo tipi di politica sarebbe estremamente miope e deleterio, perché andrebbe a ripercuotersi sulle migrazioni interne che sono necessarie per l’economia del continente. C’è bisogno di un’azione che governi il problema, legando la situazione più emergenziale al contesto più ampio e ad una strategia di lungo periodo. Questo significa anche prevedere lo sviluppo di canali legali e sicuri per raggiungere l’Europa. Questo per quanto riguarda il nostro Paese significa il superamento della Bossi-Fini che impedisce di fatto l’ingresso in Italia di chi non è rifugiato politico. Per cui, vedi dati 2016, tutti si dichiarano richiedenti asilo e il 60% delle domande vengono respinte. L’invito è quindi di sostenere e firmare le proposte della campagna “Ero straniero” per il superamento della Bossi-Fini e magari fare un nuovo decreto flussi.

Foto: Unicef/Alessio Romenzi


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