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Cooperazione & Relazioni internazionali

3 Ottobre: se però chi salva le vite è sotto attacco da mesi

Sospetti, accuse senza fondamento e minacce da parte della Guardia costiera libica. Celebriamo il 3 ottobre, commemoriamo le vittime dell’immigrazione, ma nel frattempo, cosa stiamo facendo per rendere più sicuri gli operatori umanitari impegnati nel Mediterraneo?

di Ottavia Spaggiari

Sono passati quattro anni da quella tragedia: 368 persone morte in un naufragio a qualche centinaia di metri da Lampedusa, il 3 ottobre 2013. Da allora è stata istituita una Giornata nazionale in memoria delle vittime dell’immigrazione, celebrata su tutti i principali media nazionali, su Raitre, in prima serata, Alessandro Baricco ha letto Furore di Steinbeck, un classico della narrativa americana e oggi a commemorare le vittime, a Lampedusa, sono arrivati il presidente del Senato Piero Grasso e il ministro dell'istruzione Valeria Fedeli. «Lampedusa è un luogo dove si è fatta la storia del fenomeno della immigrazione. Ciò che accade qui è l'immagine di quello che sarà nel resto dell'Europa», ha detto Grasso, «Lampedusa è quindi un esempio, un modello da imitare e da seguire».

Nell’ultimo anno però il lavoro di chi si è impegnato in mare per salvare vite è stato messo continuamente in discussione.

Prima è arrivata l’Agenzia europea per le frontiere esterne, Frontex, che a dicembre 2016 aveva accusato le Ong impegnate nelle zone di ricerca e soccorso (SAR), di collusione con i trafficanti di esseri umani, sostenendo nel rapporto Risk Analysis for 2017, pubblicato parzialmente sul Financial Times, la tesi secondo cui le operazioni umanitarie nelle acque internazionali a largo della Libia avrebbero costituito il cosiddetto “pull factor”, ovvero “fattore di attrazione”. Secondo il report, la sola presenza delle Ong avrebbe incentivato le partenze.

Il 17 febbraio la Procura di Catania aveva poi aperto un’indagine conoscitiva sul lavoro delle Ong, in particolare il procuratore, Carmelo Zuccaro, sulle prime pagine dei giornali nazionali, aveva sollevato sospetti su «come potessero affrontare costi così elevati senza un rientro economico» e su «chi fornisse le informazioni relative agli Sos in mare». Domande a cui le Ong nel Mediterraneo non hanno mai fatto fatica a rispondere.

Prime tra tutte Medici Senza Frontiere (MSF), che nel Mediterraneo Centrale all’epoca delle accuse era presente con l’imbarcazione Acquarius e lo è tutt’ora con un presidio medico sulla nave dell’organizzazione SoS Méditerranée: «Se siamo in mare è perché ci sono persone costrette a fare la traversata in assenza di un sistema legale che garantisca la loro sicurezza. Copriamo un vuoto istituzionale e rispondiamo ad un dovere umanitario», aveva risposto a Vita.it Marco Bertotto, responsabile advocacy di MSF. «Le operazioni di salvataggio vengono attivate o per degli avvistamenti diretti fatti in mare o per una comunicazione del Centro di Coordinamento della Guardia Costiera. Le chiamate di Sos provengono dai soggetti più vari, dalle persone sui gommoni, dalle famiglie che si trovano a terra, già in Italia, e che ricevono la richiesta d’aiuto, e non si può escludere che a volte provengano dagli stessi scafisti, un po’ come il piromane che poi chiama i vigili del fuoco, ciò che però escludo è che si tratti di un’attività premeditata di coordinamento tra i trafficanti di esseri umani e chi porta i soccorsi. Tutte queste accuse sembrano quasi una strategia per cercare di nascondere il fallimento delle politiche di respingimento fatte di muri e fili spinati che non sono riuscite a frenare i flussi. Su questo mi chiedo se i veri complici siamo noi Ong oppure l’Europa».

Tutte queste accuse sembrano quasi una strategia per cercare di nascondere il fallimento delle politiche di respingimento fatte di muri e fili spinati che non sono riuscite a frenare i flussi".

Marco Bertotto, responsabile advocacy di MSF

E poi le navi umanitarie diventano “taxi”

I sospetti sul lavoro delle organizzazioni in mare continuano ad essere sotto i riflettori. Il 6 marzo, Luca Donadel, 23enne studente di scienze della comunicazione all'Università di Torino, posta un video sulla sua pagina facebook intitolato “La verità sui migranti” e condiviso 2 milioni di volte: in oggetto altre domande rispetto all’opportunità (anche geografica) di soccorrere le imbarcazioni dei migranti a largo della Libia e la domanda, sul perché vengano trasportati in Italia.

In base al diritto internazionale, le persone salvate devono essere infatti portate al porto vicino più sicuro e con un quadro giuridico che permetta al migrante la possibilità di chiedere asilo e di ottenere un'accoglienza dignitosa e questo non può essere il caso della Tunisia, né tantomeno della Libia.

Anche questa volta le repliche più puntuali sono arrivate dalle stesse organizzazioni: « Siamo in mare da un anno con l’Acquarius e abbiamo soccorso migliaia di persone, tutti ci hanno raccontato storie di violenza inimmaginabili», ci aveva raccontato Giorgia Linardi, Responsabile Affari Umanitari di Medici Senza Frontiere. «Non c’è nessuno che abbia descritto la Libia come un luogo sereno. I loro corpi ne sono testimoni. Abbiamo visto i segni della tortura, cicatrici di sigarette, di armi da fuoco. Abbiamo ascoltato ripetutamente testimonianze di uomini che hanno subito di tutto, donne stuprate, minori venduti al mercato come schiavi».

Ad alzare ulteriormente i toni, lo scorso aprile, aveva poi contribuito il leader dei 5 stelle, Luigi di Maio, tra i primi a definire le Ong impegnate in operazioni umanitarie nelle acque internazionali tra l’Italia e la Libia, come “taxi per migranti”, un termine che verrà ripreso più volte per rendere sempre più annebbiata la narrazione del ruolo svolto dalle Ong nel Mediterraneo nei mesi successivi, instillando sospetti e il dubbio sulla legittimità dell’impegno umanitario.

«Da qualche mese è andato crescendo un attacco alle Ong impegnate nel Mediterraneo in operazioni di salvataggio. I cinquemila morti annegati all’anno stanno diventando una normalità, così come l’assuefazione a queste tragedie», aveva scritto, sempre su Vita.it Nino Sergi, policy advisor della rete Link2007.

L’affaire Ong era poi arrivato in commissione Difesa al Senato, con un ciclo di audizioni che si erano poi concluse con un nulla di fatto: nessuna collusione tra le organizzazioni e i trafficanti.

La vicenda non si era però conclusa qui. È stata poi la volta del codice di condotta per le organizzazioni impegnate nel Mediterraneo, emanato dal Viminale lo scorso agosto dopo un lungo dibattito. Codice che stabiliva una serie di norme, di fatto per la maggior parte già rispettate dalle Ong, prime tra tutte «Non entrare nelle acque libiche, "salvo in situazioni di grave ed imminente pericolo" e non ostacolare l'attività della Guardia costiera libica». Firmato dalla maggior parte delle organizzazioni, ma non da tutte. Tra i punti più critici quello di «ricevere a bordo, su richiesta delle autorità nazionali competenti, "eventualmente e per il tempo strettamente necessario”, funzionari di polizia giudiziaria». Ferme sul no: Medici senza frontiere, Sea Watch e Jugend Rettet (bloccata da due mesi, dopo il sequestro della nave Iuventa da parte della magistratura trapanese).

Gli atti criminali e minacciosi della Guardia costiera sono sostenuti finanziariamente dall’Unione Europea e dal nostro governo".

Mission Lifeline

La Guardia costiera libica

A rendere le operazioni umanitarie in mare sempre più difficili negli ultimi mesi, non solo le strumentalizzazioni politiche e i dubbi sollevati da una campagna stampa ai limiti del diffamatorio ma anche, e soprattutto, gli attacchi e le minacce crescenti della Guardia costiera libica.

La prima ad essere protagonista di un incidente sfiorato era stata la tedesca Sea Watch (lo avevamo raccontato qui), seguita da MSF e dalla spagnola Proactiva Open Arms, una cui nave era stata attaccata e sequestrata per alcune ore ad agosto.

L’ennesimo incidente sfiorato è stato mercoledì scorso, quando l’Ong tedesca Mission Lifeline è stata minacciata dalla Guardia costiera libica in acque internazionali: colpi di arma da fuoco e la richiesta di consegnare le persone salvate in mare, a cui però l’organizzazione non ha ceduto.

«Questa volta abbiamo evitato un’escalation. In futuro sequestreremo le navi delle Ong che non rispettano la sovranità libica», ha dichiarato il portavoce della Marina libica, Ayub Kacem, sottolineando, ancora una volta, l’intenzione della Libia di estendere la propria “sovranità” ben oltre il confine delle sue acque territoriali. Un’intenzione già annunciata lo scorso agosto, con la rivendicazione del controllo della zona Sar (search and rescue), in seguito alla quale tre Ong avevano sospeso le operazioni umanitarie nel Mediterraneo.

«Questo episodio dimostra chiaramente che la Guardia costiera libica ha ripetutamente ostacolato le operazioni di sicurezza e gli aiuti umanitari, ha minacciato le vite dell’equipaggio a bordo e quelle dei migranti e ha cercato di difendere l’espansione arbitraria del proprio territorio»,ha dichiarato in un comunicato Mission Lifeline, che chiede delle risposte su quanto accaduto, da Bruxelles e da Berlino, perché, scrive «Gli atti criminali e minacciosi della Guardia costiera sono sostenuti finanziariamente dall’Unione Europea e dal nostro governo».

Celebriamo quindi il 3 ottobre, commemoriamo le vittime dell’immigrazione, ma nel frattempo, cosa stiamo facendo per rendere più sicuri gli operatori umanitari impegnati nel Mediterraneo?

Foto: Michelangelo Mignosa


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