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Come si difende l’educazione delle bambine sotto Boko Haram

Rimane forte la minaccia del gruppo terrorista nell’estremo Nord del Camerun dove COOPI continua ad impegnarsi per garantire l’accesso scolastico, con un’attenzione particolare alle bambine. Intervista a Vincenzo Altomare, capo missione dell’Organizzazione nel Paese e Sylvestre Woumbondi, coordinatore del progetto Educazione

di Ottavia Spaggiari

«È una situazione difficilissima, in cui i rischi per la sicurezza si sommano agli ostacoli culturali», così Vincenzo Altomare e Sylvestre Woumbondi, rispettivamente capo progetto e coordinatore d’attività del progetto Educazione di Coopi in Camerun, spiegano la complessa situazione in cui l’organizzazione si trova ad operare, in un’area in cui il gruppo terrorista d’ispirazione qaedista continua ad essere presente, ma non è l’unico ostacolo all’accesso scolastico.

Com’è la situazione nella zona in cui lavorate?

Vincenzo Altomare: Nell’estremo Nord del Paese Boko Haram è ancora molto attiva. C’è un coprifuoco molto rigido, le moto di sera non possono circolare, perché sono il mezzo prediletto dai miliziani. È difficile ottenere notizie precise sulle zone di confine, ma sappiamo che alcuni villaggi sono stati saccheggiati dal gruppo in cerca di cibo e rifornimenti.

Sylvestre Woumbondi: L’ultimo attacco è stato pochi giorni fa. Nei villaggi sono presenti dei presidi dell’esercito ma alcune scuole rimangono chiuse. La presenza dei soldati ci fa sentire più sicuri, le scuole sono protette ma siamo però ancora molto lontani dall’aver eradicato Boko Haram, però. Al tema della sicurezza, si aggiunge anche quello culturale. Si fatica ancora tantissimo a far capire alle famiglie l’importanza di mandare a scuola i bambini.

Il vostro progetto dedica un’attenzione particolare all’accesso scolastico delle bambine, perché questa scelta?

S.W.: I figli vengono considerati una forza lavoro irrinunciabile per aiutare i genitori nei campi e nelle piccole attività di commercio e quando finalmente si convincono delle opportunità che la scuola può offrire, mandano solo i maschi. Basta guardare i numeri. Nelle trenta scuole in cui lavoriamo le bambine rappresentano circa il 50% degli studenti nelle prime classi, fino ai nove o dieci anni, poi diminuiscono al 30% e sono solo il 10% nelle classi più avanzate, tra gli adolescenti. Nella maggior parte dei casi, vengono tenute a casa e fatte sposare da piccole. Abbiamo molti casi in cui vengono date in matrimonio bambine di nove anni. Per questo la nostra priorità in questo momento è il lavoro con le famiglie. Si tratta di coinvolgerle attivamente, incoraggiarle a cambiare convinzioni, abitudini e comportamenti che sono radicati profondamente. È un lavoro lungo. Stiamo portando avanti una grande attività di sensibilizzazione, per spiegare ai genitori perché andare a scuola è la chiave per costruire un futuro migliore.

Che leve usate per convincere i genitori che non vogliono mandare a scuola le figlie femmine?

S.W.: Parte tutto dal dialogo. Organizziamo eventi e visite per fare vedere le scuole alle famiglie, così da mostrare quali siano nel concreto gli effetti dell’istruzione sui bambini e i ragazzi. Nelle situazioni più vulnerabili, diamo un contributo per il pagamento delle tasse scolastiche e regaliamo pacchetti con quaderni, libri e penne. Stiamo poi valutando la possibilità di includere la refezione scolastica nel progetto. Il cibo può essere una leva molto efficace. In famiglia, in media, si mangia una volta al giorno, se la scuola è vista anche come un luogo di accesso al cibo, in cui, non solo le bambine e le ragazze possono mangiare, ma possono anche portare gli avanzi a casa, alle famiglie, allora questo rappresenterà un incentivo per i genitori.

Quali sono gli ostacoli più grossi che dovete affrontare nel vostro lavoro?

V.A.: La criticità delle condizioni di sicurezza rendono tutto il nostro lavoro più complesso. Oltre al rischio di operare in una situazione del genere, vi sono delle difficoltà oggettive, che rendono i processi più lunghi e complessi. Ad esempio, tutti gli spostamenti devono essere autorizzati dal prefetto, questo ovviamente si traduce nell’alimentazione di una macchina burocratica estremamente pesante. Vi sono poi gli ostacoli oggettivi. Molte scuole sono state usate come base dell’esercito camerunense e come luoghi di accoglienza per i rifugiati e, in molti casi, sono state lasciate in condizioni difficili. In molti casi non ci sono banchi, né sedie o panche per gli studenti, grazie al sostegno dell’AICS (Agenzia Italiana per la Cooperazione e lo Sviluppo) siamo riusciti a rifornire diverse scuole e a dare agli alunni dei kit, con quaderni e colori. Sembra banale, ma qui non c’è nulla e con le matite a colori si può davvero fare una piccola rivoluzione. Attualmente stiamo riabilitando 10 aule e costruendo delle scuole modulari smontabili, per permettere una continuità scolastica. Le scuole qui iniziano ufficialmente a settembre, ma le lezioni sono cominciate molto più tardi.

S.W.: Inoltre qui mancano gli insegnanti. Le persone non vogliono venire a lavorare in questa parte del Paese, perché è una zona considerata ancora pericolosa. In media, nelle trenta scuole che seguiamo noi, abbiamo 500 tra bambini e ragazzi, dai 6 ai 17 anni, e appena due insegnanti per scuola. Ci sono classi che vanno dai 60 ai 100 alunni. Spesso per tenere le lezioni vengono chiamate le persone del villaggio che hanno il titolo di studio più alto, ma non sono stati formati come insegnanti. È un contesto complicato.

Un altro elemento difficile poi, è quello dei certificati di nascita e dei documenti di riconoscimento. I bambini, e soprattutto le bambine, non vengono registrati. Spesso non nascono in ospedale e i villaggi di solito sono molto lontani dalle cittadine in cui c’è l’ufficio anagrafe. Crescono senza avere mai avuto un documento di riconoscimento e senza averne uno non è nemmeno possibile superare gli esami. Infine c’è il fatto che, ancora oggi, è difficile mostrare esempi concreti di successo di chi è uscito da scuola e ha subito trovato un buon lavoro. I tassi di disoccupazione sono ancora altissimi e questo rende difficile comunicare ai genitori l’importanza di mandare i figli a scuola.

Il vostro progetto è stato lanciato a giugno. Che risultati avete ottenuto fino ad oggi?

V.A.: Siamo riusciti a costruire una buona collaborazione con le autorità locali. Questo ci permette di essere informati e capire dove intervenire e in che modo. Tutti, dal prefetto, al delegato all’istruzione di base, hanno capito il valore e il significato del nostro lavoro e questo non è scontato.

S.W.: Sì, sicuramente la collaborazione con le autorità locali e il loro coinvolgimento è il risultato più importante. Il lavoro con le famiglie poi, inizia a dare i suoi frutti. I genitori hanno iniziato a registrare i propri figli, ottenendo così i documenti coi quali possono accedere agli esami. C’è ancora moltissimo da fare ma devo dire che, in situazioni così complicate, non ho mai visto dei risultati così velocemente come qui.


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