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What were you wearing? La denuncia in 18 outfit

Una mostra-progetto che sta girando in alcune università degli Stati Uniti porta in primo piano l'abbigliamento di donne che hanno subito violenza. Obiettivo mostrare come si tratti di abiti normalissimi e che vada scardinato un pregiudizio che troppo spesso pone le donne sul banco degli imputati al posto dei loro violentatori con una semplice domanda «cosa indossavi?»

di Antonietta Nembri

Sta girando i campus delle Università degli Stati Uniti. Al momento è al campus dell'Università del Kentuky. È una mostra-denuncia dal titolo “What were you wearing?” ovvero “come eri vestita?” ed è la domanda che le donne vittime di violenza si sentono rivolgere, come se lo stupro subito fosse in realtà colpa della vittima. Una mentalità dura a morire che gli studenti che hanno ideato la mostra scardinano con 18 capi di abbigliamento. 18 outfit realizzati in base alle testimonianze delle vittime di violenza.
La mostra, voluta dalla direttrice dell’Istituto per la prevenzione e l’educazione sessuale dell’Università del Kansas, Jen Brockman, è fatta di pantaloni, maglioni, vestiti, magliette semplici, a volta "stazzonate" e di uso comune. Non sono ovviamente i “reperti” dei casi di violenze indossati davvero dalle vittime, li hanno portati gli studenti sulla base dei racconti raccolti, in alcuni casi, parlando direttamente con le vittime.
Il progetto ha preso il via con la prima installazione nel 2014, ha girato diverse Università negli Stati dell’Arkansas, dell’Iowa e del Kansas, si è pian piano arricchito fino a divenire una vera e propria mostra che da settembre di quest’anno ha fatto il boom anche sui sociale con l’hashtag #whatwereyouwearing, complice anche il contemporaneo hashtag #metoo di denuncia di molestie e violenze scaturite dopo il caso Weinstein.

A guardare le immagini dei capi di abbigliamento e le storie abbinate non si può non ricevere un pugno nello stomaco, come leggendo la storia scritta accanto a un piccolo vestito: “Un prendisole. Mesi dopo mia madre, davanti all’armadio, si sarebbe lamentata del fatto che non lo avevo più messo. Avevo sei anni” (nell'immagine in apertura). O leggendo un’altra vicenda scritta accanto a una t-shirt gialla e un paio di jeans ”È successo tre volte, da parte di tre persone differenti. E ogni volta indossavo jeans e t-shirt” (nella gallery in basso).

I capi di abbigliamento esposti sono la dimostrazione lampante di quanto i pregiudizi e gli stereotipi siano duri a morire: troppo spesso le vittime di uno stupro e di una violenza sono messe sul banco degli imputati dai difensori dei loro stupratori, come se un particolare abito fosse l’alibi alla violenza.

E invece il faro deve essere acceso sui colpevoli che non hanno nessuna giustificazione. Una mostra con un duplice obiettivo, come spiega Jen Brokman: «Vogliamo che le persone possano vedere se stesse riflesse nelle storie, negli abiti e far comprendere alle vittime che non è stata colpa loro».


Alcune immagini dell'esposizione da sapec.ku.edu/what-were-you-wearing#

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