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Abdoulaye Barry: ecco le foto che raccontano la crisi del Lago Ciad

È uno sguardo inedito quello di Abdoulaye Barry, giovane fotografo ciadiano che arriva a Milano con una mostra organizzata da Vita in collaborazione con Coopi e il sostegno di Aics, per raccontare la crisi umanitaria della regione del Lago Ciad. “Popoli del Lago Ciad. Una crisi umanitaria vista dall’interno” inaugura il 2 novembre alle 18.00 allo Spazio MiFAC di via Santa Marta 18, a Milano e sarà aperta fino al 19 novembre

di Laura Serani

Nel 1994 la prima edizione dei Rencontres de Bamakodestinati a diventare la più importante manifestazione africana consacrata alla fotografia, rivelava ad un piccolo gruppo di curatori e giornalisti occidentali, l’esistenza di realtà, archivi e fotografi, fino ad allora, completamente ignorate.

In particolare, due grandi figure Seydou Keita e Malick Sidibé, famosissimi per gli abitanti di Bamako e delle regioni circostanti, ma anche una serie di giovani fotografi che per la prima volta avevano l’occasione di riunirsi tra di loro e d’incontrare professionisti venuti da lontano. Questo ruolo la biennale l’ha conservato e ampliato nel tempo, diventando una piattaforma di scambi senza precedenti per il settore e l’occasione di far emergere e diffondere nuovi talenti. Un primo passo verso la rottura dell’isolamento dei fotografi e degli artisti africani, che ha fatto un verso salto in avanti con l’arrivo del digitale.

Abdoulaye Barry appartiene alla famiglia dei fotografi per i quali Les Rencontres de Bamako hanno rappresentato una vera piattaforma di lancio. Incontrato ad Accra, in Ghana, durante un workshop collegato alla biennale, il suo lavoro ci aveva molto colpito e lo avevamo invitato a partecipare alla mostra panafricana, panorama delle creazione emergente.

A questa occasione, nel 2009, aveva ricevuto il Premio della Giuria.

L’attività principale di Barry, come di molti fotografi in Africa, é fotografare matrimoni e cerimonie, ma in parallelo si é sempre interessato a persone in situazioni difficili e fragili. A cominciare dai bambini e dai ragazzini senza famiglia che vivono di piccoli lavoretti, sniffano colla e abitano per la strada a N’Djamena, la sua città, la capitale del Ciad.

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Un’attenzione speciale verso gli altri gli permette di fotografare in contesti difficili come quelli della strada, degli incontri notturni e degli sballi e rende le sue immagini particolarmente sincere e forti. Sia col fenomeno dei ragazzi di strada, sia con quello dei giovani che in balia di precarietà e frustrazioni, passano la notte nei bar, alla ricerca di divertimenti e distrazioni a rischio, Barry fotografa per allertare sulla perdita di riferimenti culturali e religiosi che possono generare realtà pericolose, cercando di sensibilizzare chi si riflette nelle sue immagini e chi, da li’, puo’ tirarli fuori.

La notte che spesso libera la parola e facilita le confidenze é spesso il teatro dei suoi racconti. Il suo modo di fotografare diretto e ravvicinato non imbellisce anzi sottolinea le tensioni, la stanchezza, la solitudine, la tristezza. Ma la sua empatia con le persone che fotografa elimina le distanze e, oltre il giudizio e i pregiudizi, propone una nuova chiave di lettura basata sulla comprensione di problematiche sociali sensibili.

Il suo modo di fotografare diretto e ravvicinato non imbellisce anzi sottolinea le tensioni, la stanchezza, la solitudine, la tristezza. Ma la sua empatia con le persone che fotografa elimina le distanze."

Laura Serani, curatrice della mostra “Popoli del Lago Ciad. Una crisi umanitaria vista dall’interno”

La collaborazione con altri fotografi e in particolare con Bruno Boudjelal, suo primo maestro di stage, lo ha coinvolto in vari missioni. Tra le più importanti, quella sul Lago Ciad, per documentare le conseguenze dei cambiamenti climatici e dell’inquinamento per le popolazioni che da generazioni vivono solo di pesca, che non hanno e non conoscono altri modi di sussistenza. Per questa missione Barry aveva realizzato una serie d’immagini sulla pesca notturna , scattate al largo, su imbarcazioni precarie, alla luce delle poche lampade utilizzate dai pescatori, luci che disegnano suggestivi primi piani di dettagli di visi, di gesti e di attrezzi, come strani squarci nel buio assoluto. Ancora la notte e ancora la ricerca di modi nuovi di raccontare, fuori dai codici del foto-giornalismo più tradizionale. Con la serie sui pescatori del Lago Ciad, Barry é tornato a Bamako nel 2011 – per l’edizione dei Rencontres, sul tema della sostenibilità, che aveva preceduto di pochi mesi il colpo di stato in Mali – con una mostra personale che in seguito gli ha aperto le porte di vari musei in Europa e altrove.

Attraverso le differenti manifestazioni ormai diffuse in molti paesi e grazie a internet, le opportunità di scambio e di collaborazione con giornalisti, curatori e fotoeditor del mondo intero e le possibilità di diffondere i propri lavori migliorano progressivamente, anche se l’isolamento resta ovviamente predominante.

Queste opportunità – che i fotografi africani della generazione precedente hanno conosciuto solo alla fine della loro carriera e della loro vita – hanno permesso il riconoscimento di una produzione artistica e fotografica importante, la sua affermazione sulla scena culturale e sul mercato dell’arte internazionale.

Scoprire la creazione africana significa scoprire le forme di auto-rappresentazione di realtà viste e vissute dall’interno, alternative alla proiezione di stereotipi e all’applicazione di codici (estetici, morali, ecc.) tipiche della rappresentazione dell’Africa in e dalla parte dell’Occidente.

Poter far ormai appello a dei fotografi che conoscono il territorio e possono interagire in maniera diretta con popolazioni e comunità di cui condividono la storia, la lingua e le consuetudini é un grande atout per la qualità dell’informazione. La decisione di coinvolgere un fotografo africano nel progetto di documentare le missioni di Coopi ci é sembrata interessante e pertinente e la scelta di Abdoulaye Barry si é imposta rapidamente per la sua conoscenza della regione. Ma altrettanto, per la sua capacità di trattare con grande umanità situazioni complesse, di avvicinarsi alle persone e di trovare per ogni soggetto e per le immagini stesse, il tono, la forma e la costruzione giusti.

La rappresentazione di se stessa dell’Africa é raramente « miserabilista », l’empatia sostituisce la compassione, una certa leggerezza e a volte anche una certa ironia sdrammatizzano la situazioni senza toglierne la gravità. Abdoulaye é molto bravo nel ritrarre le persone, nella tradizione della foto di studio e dell’arte del ritratto così importanti su tutto il continente. E anche in situazioni d’emergenza come quelle in cui opera Coopi – per il reinserimento dei rifugiati, l’accompagnamento delle persone con handicap, le missioni per l’acqua, la salute e l’educazione – sembra non dimenticare mai che un ritratto deve trasmettere dignità, imbellire e nobilitare, come ripeteva sempre Malick Sidibé, che tanto ha contribuito al successo della fotografia africana al di là delle sue frontiere e all’emergere di una visione nuova e vitale dell’Africa.

La rappresentazione di se stessa dell’Africa é raramente «miserabilista», l’empatia sostituisce la compassione, una certa leggerezza e a volte anche una certa ironia sdrammatizzano la situazioni senza toglierne la gravità.

Laura Serani, curatrice della mostra “Popoli del Lago Ciad. Una crisi umanitaria vista dall’interno”

Brevi appunti sulla fotografia e il ritratto in Africa

L’introduzione della fotografia sul continente africano ha seguito di poco l’invenzione di Daguerre e già alla fine del 1839, i primi dagherrotipi viaggiavano in direzione dell’Africa del Nord per scendere poi lungo le coste del Marocco verso quelle del Ghana (the Gold Coast) , della Liberia e della Sierra Leone. Introdotta da esploratori e viaggiatori la pratica si sviluppo’ all’inizio nelle zone costiere, per la loro accessibilità. Ma con le missioni religiose, protestanti e cattoliche, che accompagnavano l’avanzata delle truppe coloniali, nella metà del XIX secolo la fotografia appare anche in zone più recondite del continente. A scopo documentario e illustrativo, di propaganda coloniale o di controllo sociale e politico la fotografia si sviluppa rapidamente in termini di tecnologia e di pratica, sulla spinta dell’interesse crescente per le immagini di luoghi e popolazioni lontane e esotiche. Affiancando e spesso sostituendo cosi’ la pratica del disegno e dell’illustrazione , la fotografia si rivela lo strumento ideale per restituire le realtà di mondi di cui l’Europe si lanciava alla conquista.

A contatto di tecnici e fotografi occidentali, gli Africani imparano e si appropriano della fotografia come di un’ulteriore nuova lingua e nelle principali città cominciano ad aprire i primi studi fotografici. La dispersione dei fondi e la mancanza di procedimenti di conservazione, hanno lasciato purtroppo poche tracce di queste prime esperienze, all’origine che porteranno ad una vera cultura popolare dell’immagine e ad una ampia diffusione della pratica del ritratto in Africa.

Se nel corso del tempo la fotografia di paesaggio o d’architettura – testimonianza delle trasformazioni e dei grandi cantieri iniziati dalle potenze coloniali – o la fotografia di eventi ufficiali, si sono gradualmente sviluppate, il ritratto individuale o di gruppo, é a lungo rimasto centrale nella pratica fotografica.

Farsi tirare il ritratto, far immortalare gli avvenimenti familiari decisivi é diventato in qualche decennio un fenomeno di costume diffuso e affermato – in maniera molto simile a quello nelle società occidentali – per testimoniare di riuscita e benessere e per ridurre le distanze con la famiglia lontana. Fenomeno che in Africa é durato molto più a lungo per l’arrivo più tardivo delle macchine fotografiche nelle case rispetto ai paesi più ricchi.

Laura Serani è curatrice della mostra “Popoli del Lago Ciad. Una crisi umanitaria vista dall’interno” è stata direttrice di Les Rencontres de Bamako.


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