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Economia & Impresa sociale 

Che cosa significa davvero “condividere”?

L'economia della condivisione, i suoi limiti e le sue potenzialità sono esplorati in una preziosa antologia pubblicata dalle Edizioni di Comunità

di Marco Dotti

Grande è la confusione sotto il cielo della "condivisione". Per fortuna, gli strumenti per discernere non mancano. E cominciano a offrire robusti anticorpi a chi, del "condividire", sa cogliere tutte anche le insidie. Insidie retoriche, prima di tutto. Uno di questi strumenti è senza dubbio l'antologia Shareable! L'economia della convisione (Edizioni di Comunità, pagine 172, euro 14), davvero preziosa.

Curata da Tiziano Bonini e Guido Smorto, Shareable! è il primo volume della collana-progetto "cheFare" e raccoglie i principali articoli sul tema della sharing economy apparsi sulla rivista online statunitense Shareable.net. Una rivista, "Shareable", fondata nel 2009 e dedicata al mondo del non profit e alle complesse dinamiche dell'economia della condivisione.

Diviso in tre parti (Che cos'è sharing economy; Politiche e città; Scenari futuri tra cooperativismo e mercato) il libro dà conto di un dibattito che tocca gli snodi cruciali delle politiche di inclusione urbana, della rinascita della cooperazione grazie alle piattaforme digitali e dei commons senza dimenticare gli aspetti critici del consumo collaborativo (altro quasi-sinomimo di sharing economy).

Nella loro introduzione i curatori Guido Smorto, professore di diritto comparato a Palermo, e il sociologo Tiziano Bonini ricordano che la condivisione di risorse private materiali o immateriali ha un "futuro antico", ma ciò che è nuovo nella sharing economy è la scala delle attività di condivisione. Le piattaforme digitali permettono infatti di estendere oltre la rete dell'immediata prossimità fisica quei beni, interagendo con persone estranee e lontane rispetto alle reti di vicinato.

Ciò detto, la sharing economy rischia di essere presa come una sorta di Kofferwort, una parola-valigia dentro la quale finiscono fenomeni in parte simili, ma mai sovrapponibili. Ecco perché è importante lavorare sulle differenze fra pratiche che hanno molto in comune, ma altrettanto differiscono fra loro. Proprio non insistendo su queste sottili differenze qualitative, si rischia – tipico atteggiamento da tecnoentusiasti – di considerare la sharing economy come un processo "buono in sé". Fatto questo – per tutti valga il caso Uber – smentito ampiamente dalle pratiche.

«Annebbiati dai nuovi servisi della sharing economy commerciale», osservano i curatori del libro, «spesso perdiamo di vista la differenza tra le diverse economie di tipo collaborativo: alcune lo sono per principio, perché generano profitti per la collettività (sia per chi consuma, sia per chi lavora, come un un fair trade dell'economia digitale)». Altre, invece, della condivisione hanno solo la maschera, ma non la sostanza.

Distinguere queste economia è cruciale, perché l'economia (o la diseconomia, in certi casi) commerciale tende a fagocitare pratiche collaborative preesistenti, estraendo valore a costo quasi zero. Si può invertire la tendenza? Si può, in altri termini, alimentare una sharing economy che, basata su reti e piattaforme digitali, produca valore e non volatilità per il legame sociale?

La sfida è aperta, il dibattito anche. Ma con buone bussole (e meno storytelling) si può ben sperare di farcela.

Il libro Shareable! L'economia della condivisione verrà presentato questa mattina alle 10.30 alla Fondazione Giangiacomo Feltrinelli in Viale Pasubio, 5 a Milano, nel corso del dibattito Sharing Economy. Una riflessione sul governo dell’economia collaborativa a partire dalla prima presentazione in Italia della Risoluzione del Parlamento europeo.


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