Cooperazione & Relazioni internazionali

Ciad: se il cambiamento parte dalla terra

Nella Regione del Lago, colpita da una delle peggiori crisi umanitarie del mondo, Coopi ha sviluppato un programma di formazione e assistenza per garantire la sicurezza alimentare delle famiglie in 16 villaggi, con un’attenzione particolare agli sfollati in fuga da Boko Haram

di Ottavia Spaggiari

È un lavoro difficile, in una delle peggiori crisi umanitarie del mondo, quello portato avanti da Coopi in Ciad, nella Regione del Lago, per garantire la sicurezza alimentare delle famiglie in 16 villaggi, aumentandone la resilienza. «Si tratta di una crisi che dura da tempo e che è stata esacerbata dai conflitti», racconta Fabio Castronovo, field coordinator nel Paese. Se infatti il Ciad si trova al 184esimo posto su 186 paesi, con un Indice di sviluppo dello 0,328%, dal 2013 in poi, la Regione del Lago, al confine con Niger, Nigeria e Camerun si è trovata ad accogliere le popolazioni in fuga dalle atrocità dello Stato islamico di Boko Haram. Qui sono arrivati sfollati interni, rifugiati e rientrati, ovvero chi aveva lasciato questa parte del Paese, ed è stato poi costretto a farvi ritorno a causa della presenza di Boko Haram. A rendere ancora più critica la situazione, le condizioni climatiche di un territorio colpito da una forte desertificazione, che va peggiorando, con le precipitazioni annuali che quest’anno sono diminuite del 30%.

«Nella zona in cui ci troviamo noi, i profughi sono circa il 30%, molti sono arrivati dalle isole dove ci sono le milizie di Boko Haram», spiega Castronovo, raccontando che nella difficoltà a dare la prima prova di resilienza e fiducia, sono proprio gli stessi ciadiani, abitanti delle comunità locali: «molto spesso i profughi vengono accolti dalle persone del posto. Nelle zone rurali vi è molta solidarietà, soprattutto tra le famiglie appartenenti agli stessi gruppi etnici».

Le sfide però rimangono enormi, dalla difficile situazione dei Buduma, stigmatizzati in quanto spesso ritenuti affiliati dello Stato islamico dell’Africa occidentale, al problema delle risorse, in una zona in cui sono già fortemente limitate. «L’accesso all’acqua rimane difficilissimo. Le persone del posto sono costrette a prenderla dal lago o da pozzi artigianali superficiali, che non possono garantirne la purezza. I casi di tifo, per questo motivo, sono molteplici». Il progetto prevede anche l’istallazione di motopompe e sono già state fatte riunioni con i tecnici locali per permettere la costruzione di nuovi pozzi a norma.

«La pressione sull’accesso all’acqua e ai terreni è forte e il rischio è che peggiori, provocando quindi, sul lungo periodo, nuovi conflitti e peggiorando anche il livello di insicurezza alimentare».

La percentuale di malnutrizione acuta in Ciad infatti, secondo Smart Unicef 2016, si aggira intorno al 12,2%, mentre la malnutrizione cronica intorno al 36%, registrando così il tasso regionale più elevato del Paese. «Abbiamo condotto uno studio dei prezzi di mercato per capire le oscillazioni, così da monitorare il livello di sicurezza alimentare, il grado di resilienza delle famiglie e la loro capacità stoccaggio», spiega Castronovo. «All’inizio, tra i primi problemi che abbiamo notato vi era quello dell’accesso alla terra. Era necessaria una riorganizzazione, così abbiamo incontrato i capi villaggio, i responsabili amministrativi della zona e i capi cantone e siamo riusciti a stipulare degli accordi di locazione per aiutare le famiglie a migliorare la propria resilienza e superare i periodi di crisi». A questo è stato affiancato un programma di formazione sul territorio. «Ci siamo impegnati per migliorare le capacità produttive delle famiglie, dedicando un’attenzione particolare alla gestione della fertilità del suolo e alla salute degli animali. Abbiamo anche distribuito sementi di cereali e leguminose locali certificate, un grosso passo in avanti per molti che fino a poco prima avevano sempre usato sementi non certificate e quindi più facilmente soggette ad attacchi parassitari».

Ad essere state distribuite anche le capre, per favorire il coinvolgimento delle donne. Storicamente infatti, sul territorio, gli uomini si occupano di solito dell’allevamento dei bovini e le donne delle capre. «La maggior parte delle famiglie degli sfollati e dei rifugiati sono composte da un solo genitore, principalmente da madri. Oltre agli animali, ci siamo impegnati nella formazione sulle tecniche di allevamento, nella vaccinazione e nella distribuzione di integratori alimentari», racconta Castronovo. «Proprio con le donne abbiamo avviato un altro percorso di formazione con la nutrizionista. Il problema qui è migliorare la diversificazione alimentare. Da queste parti si consuma molta carne ma mancano le vitamine e i sali minerali, da qui l’importanza di coltivare verdure e legumi, anche perché se gli animali si ammalano e vengono a mancare, questo può avere effetti pesantissimi su tutti». Cercare di coinvolgere le donne nei piccoli allevamenti, poi ha anche un’altra funzione importante. «La discriminazione di genere qui è molto radicata, le donne non sono coinvolte nei processi decisionali, sono emarginate, questo è un modo per dotarle di una fonte di sostentamento, di nuove informazioni e conoscenza e, alla fine, è un modo per attribuire loro più potere. Il cambiamento parte anche da qui».

Foto: Abdoulaye Barry


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