Sezioni

Attivismo civico & Terzo settore Cooperazione & Relazioni internazionali Economia & Impresa sociale  Education & Scuola Famiglia & Minori Leggi & Norme Media, Arte, Cultura Politica & Istituzioni Sanità & Ricerca Solidarietà & Volontariato Sostenibilità sociale e ambientale Welfare & Lavoro

Cooperazione & Relazioni internazionali

Jahier: «Il Cese, un unicum in Europa»

Abbiamo incontrato Luca Jahier, presidente del Gruppo III, Attività diverse, in occasione della plenaria del Cese a Bruxelles.

di Cristina Barbetta

Composto da 350 membri provenienti dai 28 Stati Membri dell’Unione Europea, il Comitato economico e sociale europeo (CESE) è un organo consultivo dell'UE che comprende rappresentanti delle organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro e di altri gruppi d’interesse. Formula pareri su questioni riguardanti l’UE per la Commissione europea, il Consiglio dell’UE e il Parlamento europeo, fungendo così da ponte tra le istituzioni decisionali dell’UE e la società civile.

Abbiamo incontrato a Bruxelles Luca Jahier, presidente del Gruppo III, Attività diverse, in occasione della plenaria del Cese. Jahier è entrato al Comitato nel 2002.

Può fare un bilancio di questi anni?
Il mio bilancio è straordinariamente positivo. Il Cese è uno spazio di dialogo tra quasi tutte le componenti della società civile organizzata europea. L’unica componente strutturale che manca è quella della cultura. E’ composto da 350 membri provenienti dai 28 Stati Membri che rappresentano tutto il mondo: le grandi imprese, le banche, le piccole e grandi imprese, le professioni liberali, i sindacati, le associazioni di donne, di giovani, la realtà dei disabili, i consumatori, le cooperative… Questa complessità di appartenenza e di storie che dialogano insieme e cercano di andare al di là delle istanze più o meno strutturate che ognuno di loro rappresenta per cercare di costruire delle sintesi comuni continua a rimanere un unicum in Europa.

Il mio giudizio è di un’esperienza straordinariamente positiva, con persone incontrate nelle varie rappresentanze che sono spesso di una ricchezza straordinaria e con una gratitudine per le esperienze fatte.

Il Cese è uno spazio in cui è stato possibile in questi anni inventare, sperimentare e aprire piste nuove. Penso alla più antica: abbiamo portato al centro dell’attenzione dell’agenda europea un tema che non esisteva, quello dell’economia sociale e dell’impresa sociale, che era sparito dall’agenda europea a causa di un combinato disposto, di un’azione congiunta tedesco-britannica alla fine degli anni ’90.

Abbiamo iniziato un’agenda zero nel 2002 e siamo riusciti ad avere una direttiva europea sul public procurement che ha fatto alcune riserve per il mondo dell’economia sociale agli investimenti sulla social innovation, all’impegno di governi che non avevano mai investito nell’economia sociale e ora fanno investimenti. Tutto questo è partito da questa casa, da una coraggiosa capacità di un parere sulla diversità dei modelli d’impresa, sull’aprire un’agenda.

L’ultima l'abbiamo lanciata a Roma pochi giorni fa. C’è un mondo che ha una straordinaria potenza che oggi anche l’ultimo rapporto del Censis rileva, che è quello delle professioni liberali, che finora non ha avuto capacità di rappresentanza. A Roma abbiamo dato delle cifre. Oggi secondo l’ultima ricerca commissionata da DG mercato interno e realizzata dal Real Collegio Carlo Alberto il mondo delle professioni regolamentate in Europa rappresenta un complessivo di 49 milioni di lavoratori, cioè il 22 % della forza lavoro europea. E’ la terza componente dopo il mondo del commercio, l’ingrosso, il dettaglio e i lavoratori della pubblica amministrazione, della difesa, del lavoro europeo. L’industria rappresenta il 15% della forza lavoro europea.

Siamo riusciti a dare rappresentanza e visibilità, a costruire un messaggio comune: abbiamo lanciato un manifesto europeo delle professioni liberali. E’ un settore che ha visto raddoppiare il numero degli occupati nel corso degli ultimi 10 anni (dati Eurostat).

Assieme al settore dell’economia sociale, assieme al digitale, alla green economy e alla cultura è un settore che vede aumentare l’occupazione mentre tutti gli altri la perdono.

Il Comitato è stato anche un antesignano della green economy/circular economy. Quando sono arrivato nel 2002 gli ambientalisti che parlavano di greening dell’agricoltura o greening dell’energy erano guardati come mosche bianche. Ora questi ambientalisti sono nel Comitato. Il dibattito del commissario è interamente sulla sustainable development agenda.

Il Comitato non è un luogo legislativo e come tale non cerca lo scontro ma le convergenze possibili per fare avanzare i dossier. Alla fine rischia di avere meno visibilità, perché se non c’è scontro e spartizione di soldi o potere reale la visibilità è minore, ma io credo che questo organismo sia uno spazio assolutamente unico per la sua originalità e ricchezza.

Come ha contribuito il Cese a sensibilizzare la Commissione su temi quali la società civile e l’impresa sociale?
Per quanto riguarda l’impresa sociale ne ha dettato l’agenda, come dicevo prima. E’ un tema che non esisteva più nell’agenda: è partito da qua, poi vi è stata la risoluzione del Parlamento, poi vi è stato un lavoro di lobby finché il commissario Barnier nella seconda Commissione Barroso l’ha poi assunto e finché arriviamo all’evento di Strasburgo e al lavoro fatto recentemente a Göteborg, a Madrid, a Bucarest, come altri in cui il Comitato è il motorino di rianimazione.

Sulla società civile potrei citare l’articolo 11 del trattato dell’UE sulla democrazia partecipativa e il ruolo del dialogo strutturale della società civile che fu scritto qui al Comitato sin dagli eventi della società civile ancora fatti sotto la presidenza Rangoni Machiavelli nel 1999: dai pareri di quella che fu poi una futura presidente, Anne- Marie Sigmund, sul dialogo civile.

Anche importanti risultati oggi parte della legislazione europea sono frutto di una battaglia che è partita da qui, come l’iniziativa europea dei cittadini, che ha visto nel Comitato un grande precursore e oggi un grande attivatore della critica, e che ha spinto la Commissione ad aprire una procedura di revisione di questa modalità di partecipazione diretta.

Certamente su questi due temi l’impatto del Comitato è stato il 110%. Senza il Comitato l’articolo 11 non ci sarebbe stato e l’impresa sociale non sarebbe tornata nell’agenda europea.

Credo che l’impatto sull’economia sociale e sull’impresa sociale sia stato enorme. Una quantità di governi europei hanno chiesto la collaborazione del Comitato per costruire le loro legislazioni nazionali sul settore. Dieci anni fa nessuno di questi governi aveva una legislazione. Oggi la maggioranza di questi l’ha o se ne sta dotando grazie al lavoro fatto progressivamente. Sul campo della democrazia partecipativa siamo stati un’antenna che ha rappresentato quest’innovazione anche all’interno del trattato. Altri risultati sono più discutibili perché oggi tutti parlano di dialogo della società civile, ma è grosso modo ristretto sovente o alla consultazione in via telematica, per cui qualcuno può mandare il suo parere a qualcun altro, o a forme interessanti dei cosiddetti dialoghi cittadini in cui un commissario fa una conferenza con una sala piena di 300 persone, ma quando noi parliamo di democrazia partecipativa e di dialogo strutturato parliamo di un processo molto più articolato e molto più strutturato, almeno secondo quanto è scritto nell’articolo 11 del trattato, però è un cammino che è iniziato e certamente non ci vede inattivi.

Come immagina nel futuro il ruolo del Cese? Ritiene che ci sarà bisogno di una riforma?
Intanto bisogna fare funzionare il Cese per quello che è, per il suo mandato che fin dalla sua fondazione non è cambiato, che è di essere uno strumento consultivo delle istituzioni europee rappresentando fino in fondo quella che è la voce dell’Europa che lavora, sia come imprenditori, sia come lavoratori dipendenti, sia come lavoratori autonomi, come promotori di ong, come promotori di azione sociale, di organizzazioni giovanili… E’ l’Europa di chi si sporca le mani, in tutti i settori del vivere economico, sociale e civile. Questo è ciò che questa casa rappresenta e che può portare nel processo legislativo assieme alla forza delle sue argomentazioni.

Spesso anche ottime legislazioni fatte con il contributo originale del Comitato sono poi pessime nei risultati perché l’applicazione non è nelle mani del legislatore ma degli Stati Membri attraverso le norme di recezione o l’applicazione concreta da parte delle amministrazioni.

Il Comitato deve in futuro sviluppare due grandi prospettive che sono necessarie: la prima è sviluppare una capacità molto maggiore di dialogo nei singoli Paesi. Il ruolo del Comitato più che essere semplicemente nello spazio pubblico del Km quadrato di Bruxelles per portare la voce di tante istanze di Stati e Paesi deve anche essere quello di animare e coordinare un dibattito più ampio e articolato delle diversità della società civile europea.

La seconda prospettiva è che forse bisogna avere la capacità di innovare più speditamente e di aprire alla forza dell’innovazione in nuovi settori, in nuove aree. L’abbiamo fatto storicamente con l’impresa sociale, con la green economy, con le grandi trasformazioni del welfare che sono attese, con le nuove esigenze di tutela e di protezione del lavoro e dell’impresa nella trasformazione digitale, nell’era dell'industria 4.0 e nei settori nuovi quali quelli della cultura, che sono settori in piena espansione e di grandissimo significato. Quindi se ci sono delle nuove frontiere da indicare mi sembra che siano queste: in primo luogo una maggiore capacità di lavorare a livello nazionale con gli organismi nazionali esistenti e di attivarli in un processo interattivo reale, in secondo luogo l’aprirsi a settori nuovi e a dinamiche di società ed economie che sono in grandissima trasformazione e transizione.

Qual è il ruolo della cultura?
Il settore della cultura finora non è quasi mai stato rappresentato nello spazio pubblico europeo in parte perché le competenze dell’Unione Europea sono molto limitate sull’educazione, se si eccettuano scambi nel campo dell'Erasmus, ma non c’è un ruolo diretto nell’educazione e nella cultura.

Adesso c’è un po’ di crescita in questa direzione. L’anno europeo del patrimonio culturale è una grande novità dopo l’anno europeo del dialogo interculturale che c’era stato molti anni fa, ma che non aveva lasciato un grande impatto. Il patrimonio culturale europeo sia materiale sia immateriale è un’enorme risorsa in termini di crescita e occupazione – pensiamo all’Italia che nell’ultimo anno ha visto raddoppiare i flussi turistici intorno a una diversa valutazione del suo patrimonio culturale- quindi è una leva di crescita, sviluppo e occupazione, e di buona prospettiva per i territori. E’ anche un’enorme leva di coesione, di mobilitazione e di discorso positivo, di senso, di identificazione di società che sono in crisi di trasformazione della cultura, e un bacino straordinario di energia positiva per costruire l’Europa e ha bisogno di trovare spazi in cui questa forza sia rappresentata . Credo che quest’ anno europeo sia una straordinaria possibilità non soltanto per sapere qualche cosa in più della cultura di altri Paesi, ma anche per scoprire che la cultura è la forza viva che può permetterci di contrastare una certa narrazione della decadenza e del negativismo alimentato da troll e fake news e imprenditori della paura che usano ad arte questo negativismo imperante, con un discorso più positivo capace di alimentare un investimento di speranza e di senso e di scommessa sul futuro. C’è un'energia straordinaria nel settore della cultura che può rappresentare una forza a disposizione dell'Europa di domani.

Foto di apertura: Luca Jahier.


Qualsiasi donazione, piccola o grande, è
fondamentale per supportare il lavoro di VITA