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Una vita sulla nave dei fragili

Francesco Cicchi, fondatore della comunità AmaAquilone nelle Marche, ha scritto un libro in cui dà voce in modo molto lirico a tanti incontri fatti. Il libro è introdotto da questo dialogo-testimonianza con Eraldo Affinati

di Giuseppe Frangi

Pietra è una bambina. È stata abbandonata ad un mese dalla nascita. Non sa chi sia suo padre. Sa che sua mamma era tossicodipendente e questo ha segnato la sua vita sin dal primo istante. Pietra è la bambina che dà il titolo a un libro emozionante, struggente (Pietra Pietra. L’anima e l’infinito da abitare” La Meridiana pag. 100, 13,50 euro). Un libro che ha fatto sua, nella scrittura e nel ritmo, la fragilità di quelli che sono i suoi veri protagonisti. Perché chi l’ha scritto, Francesco Cicchi, più che autore fa da portavoce di queste storie che hanno attraversato la sua vita, sempre in prima linea. Francesco Cicchi è fondatore e Presidente della Cooperativa Sociale Ama Aquilone, nata nel territorio della provincia di Ascoli Piceno dall’unione di due realtà associative, l’Ama, fondata nel 1981, e L’Aquilone, fondata nel 1983. Dopo tanti anni, ora, con estrema discrezione, Cicchi ha voluto dare voce ad alcune delle persone che sono passate per la comunità o l’hanno anche solo sfiorata, con diversi destini. A volte le tracce arrivano per un loro spontaneo disegno: lettere, piccoli fogli di carta sgualciti, spesso scritti dal carcere da ragazzi o ragazze che sono passati dalla comunità e che hanno mantenuto un legame. Il libro (che verrà presentato il 4 gennaio alla Libreria Rinascita di Ascoli Piceno) è introdotto da questo dialogo con lo scrittore Eraldo Affinati.

Questo è un libro costruito attorno a tanti “tu”. Ma questo libro nasce dal bisogno di un “io” che scrive. Come spiegare questo bisogno? Una necessità di rendere più profondo il rapporto con quei “tu”?
Ognuno di noi è il frutto degli incontri che ha avuto. E anche di quelli che avrebbe potuto fare e invece gli sono sfuggiti. Perfino delle esperienze mancate. Anzi, più vado avanti negli anni, più mi rendo conto che certe nostre dolorose diserzioni contano quanto le presenze che siamo riusciti a realizzare. Siamo frammenti di un disegno complessivo di cui ignoriamo tutto: dalla nascita, con le doglie del parto che il testo biblico richiama, fino alla morte, solenne per la sua stessa inevitabilità. In questo senso l’io e il tu sono invenzioni umane che il cristiano, in particolare, ha tutto il diritto di divinizzare.

«La mia è una narrazione che non si racconta» si fa a dire a Marta, ragazzina caduta nell’eroina, dopo aver assistito all’uccisione dei suoi genitori. Come ci si pone davanti «a una narrazione che non si racconta»?
Provo a rispondere in chiave giuridica: un fatto in sé, al di fuori della sua flagranza, potrebbe corrispondere alla visione di chi lo riporta. È come se la nudità dell’esistenza avesse in sé qualcosa di intrattabile, incoercibile, inclassificabile. Da scrittore ho sempre sentito con imbarazzo l’artificio narrativo a cui la tradizione letteraria sembrava destinarmi. Da insegnante intuisco che, di fronte a una personalità in formazione, specie se lacerata, il mio intervento rischia costantemente di avere un effetto unicamente cosmetico.

Le esperienze di solidarietà sono spesso in cerca di una forma attraverso cui raccontarsi. C’è bisogno di maggiore audacia? Anche di prendersi dei rischi con la scrittura come in questo caso?

Se la scrittura non certifica l’esperienza che intende rappresentare rischia di fallire il proprio compito: certo è un problema di forma, ma chiama in causa soprattutto la tensione etica che alimenta il testo. In questo caso mi sembra che l’adozione di una struttura narrativa ritmica scandita dalle ore del giorno, da un’alba all’altra, secondo l’impostazione che Francesco Cicchi ha dato ai suoi ritratti, ai pensieri e alle testimonianze, indichi la volontà di creare un nesso fra le storie raccontate e la misura universale della condizione umana nella quale sono state collocate, alla maniera, appunto, di un messale laico. La scrittura serve a dare senso all’esperienza, a fare in modo che non sembri vana. Quanto al lettore può ritrovare nei traumi e nelle sofferenze patite dai personaggi presenti nel libro qualcosa di se stesso.

Al centro del libro c’è la questione della fragilità. La fragilità può essere davvero un motore imprevisto di ricostruzione, personale e sociale?
Una delle testimonianze più intense mi è sembrata quella di Maddalena, inscritta in un capitolo intitolato proprio: la poesia degli scarti. Fragilità come imperfezione, inadeguatezza, conto sbagliato, gorgo interiore. Ma perché le persone più interessanti sono proprio queste? Me lo sono chiesto spesso insegnando ai ripetenti, ai ragazzi difficili, a chi non riusciva a stare al passo con gli altri. È come se loro mi chiamassero a un rendiconto speciale che, invece di frenarmi, rilanciava la mia attività. Mi trovo bene con i vagabondi, con i falliti, con gli orfani, con gli immigrati, più che con gli individui di successo, i cosiddetti beniamini della vita, i quali talvolta mi incutono tristezza. Cerco di trovare le risposte edificando azioni conseguenti.

Nei percorsi solidali l’esito è oggettivamente un legittimo obiettivo, un valore. Eppure nell’esperienza di Ama Aquilone e di tanti altri si dice che è importante “essere liberi dall’esito”. È una presenza di coscienza realistica?
Credo anch’io che non dobbiamo far dipendere la nostra azione dal risultato che potremo ottenere. Certo tutti vorremmo ricevere il sorriso che René, prima di spirare nel vecchio ospedale di paese, mi auguro abbia regalato ai suoi amici dell’Ama Aquilone, sarebbe stato comunque il compenso più bello, ma dobbiamo lavorare senza pensarci. A fondo perduto. Qualche tempo fa è venuto a casa nostra Bashir, un ragazzo egiziano copto che era stato con me prima alla Città dei Ragazzi, poi alla Penny Wirton. Voleva che gli correggessi una tesina e io naturalmente mi sono messo all’opera con emozione. Prima di lasciarmi mi ha detto un proverbio arabo: “Fai del bene e buttalo nel mare”. Gli ho chiesto di scrivermelo in lingua originale su un foglio che ora lo tengo appeso in camera.

Oppure questa “libertà dall’esito” è l’ammissione della necessità che scenda in campo la forza di un Altro? In altre parole: quanto conta in un’esperienza educativa o di recupero lasciar spazio anche al mistero?
Non c’è una precettistica perché ogni uomo e ogni donna hanno qualcosa di unico, irripetibile, straordinario. Quello che tu potresti interpretare in un modo, poi magari si configura in un altro. L’importante è mettersi in una posizione di disponibilità, questo sì, non chiudersi a riccio, né illudersi di poter controllare tutto. Se fai così, allora ti arrivano i doni, quelli veri: come Patricio Cristian il quale, al negozio sportivo dove l’avevano condotto i suoi educatori per regalargli le tanto agognate scarpette da tennis, prima di provare il modello nuovo, si vergogna, di fronte a loro, dei suoi calzetti vecchi, rotti e neri.

Mai dire “mi hai deluso”. È uno dei cardini del metodo di Ama Aquilone. Nelle esperienze educative bisognerebbe dunque bandire la parola “delusione”?
Decisamente sì. Andiamo a prendere il dizionario e scegliamo la parola contraria: illusione. Non per convincere lo sconfitto di una realtà inesistente, ma nella profonda risonanza leopardiana che la terra marchigiana dell’Arcobaleno quasi ci chiede di ascoltare. L’energia vitale serve al “garzoncello scherzoso” per dilatare all’infinito il “giorno d’allegrezza pieno”.


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