Cooperazione & Relazioni internazionali

Tutti i problemi del piano di rimpatrio dei Rohingya in Myanmar

L’accordo raggiunto tra Bangladesh e Myanmar prevede il rimpatrio di centinaia di migliaia di rifugiati fuggiti dal Rakhine State dopo l’ultimo picco di violenza dello scorso agosto. Le organizzazioni umanitarie però sottolineano come ancora oggi in Myanmar non vi siano ancora le condizioni per garantire un ritorno sicuro a chi è scappato in Bangladesh

di Ottavia Spaggiari

È stato raggiunto un nuovo accordo tra Bangladesh e Myanmar per rimandare indietro centinaia di migliaia di Rohingya fuggiti dal Paese. Il Myanmar, dove la minoranza Rohingya è stata sottoposta a pesantissime discriminazioni, avrebbe accettato di rimpatriare 1.500 persone a settimana, con l’obiettivo di riaccogliere nel Paese tutte le persone che sono fuggite dopo l’ultimo picco di violenze, nel Rakhine State, lo scorso agosto e che sarebbero circa 650mila.

L’esodo dei Rohingya è stato definito da molte agenzie internazionali la “crisi rifugiati” con l’escalation più rapida degli ultimi vent’anni e le Nazioni Unite hanno classificato le violenze di questa minoranza, come una vera e propria “pulizia etnica”. Il rimpatrio di massa dei Rohingya ha sollevato profonda preoccupazione tra le agenzie e le organizzazioni impegnate nell’assistenza umanitaria. Come aveva notato su Open Migration, Jade Huynh, anche se né il Bangladesh, né il Myanmar hanno firmato la Convenzione dei Rifugiati del 1951, rimane il fatto che “il principio di non respingimento continua ad essere un principio chiave del diritto internazionale a cui tutti gli stati sono legati. Per questo, è un nostro dovere come testimoni di ciò che sta succedendo, assicurarsi che questo sia rispettato”.

Secondo la BBC, l’accordo dovrebbe prevedere che i rimpatri avvengano su base volontaria, il che però rivela già un’evidente contraddizione. Poiché la maggior parte dei rifugiati ha già dichiarato di non avere nessuna intenzione di ritornare in Myanmar, se non vi sono le condizioni minime di sicurezza, se le abitazioni distrutte non saranno ricostruite e se le discriminazioni non saranno eliminate, tutte condizioni inesistenti.

L’unico elemento di novità sarebbe l’allestimento di due campi profughi provvisori in Myanmar, uno dei quali arriverebbe ad ospitare 30mila persone, quindi solo una minima parte delle persone fuggite dal Paese. Allo stesso tempo, è stato effettivamente avviato un processo di ricostruzione delle abitazioni distrutte durante le violenze nel Rakhine State, in cui sono stati rasi al suolo 350 villaggi, ma riguarderebbe solo le abitazioni di non musulmani, quindi di nessun Rohingya. L’esercito, che è accusato di pesantissimi abusi dei diritti umani, ha ancora il controllo dell’area settentrionale dello Stato, dove le organizzazioni umanitarie e gli osservatori esterne hanno un accesso estremamente limitato. A complicare la situazione, la tensione crescente nella popolazione locale non musulmana che in diversi casi ha espresso profonda ostilità all’idea di un ritorno dei Rohingya.

A BBC Bangladesh, il Ministro degli esteri bengalese aveva dichiarato di aver proposto al Myanmar un rimpatrio di 15mila persone a settimana, una cifra che è stata ridotta dopo la negoziazione, a 300 persone al giorno, ovvero 1.500 a settimana. Se effettivamente questi numeri venissero rispettati, sarebbero 156mila i Rohingya rimpatriati nei prossimi due anni. Una cifra comunque molto limitata se paragonata alle 650mila persone arrivate in Bangladesh dall’inizio della crisi.

Come ha ricordato più volte Regina Catrambone, co-fondatrice di Moas, l’organizzazione che è attiva nel Paese per prestare assistenza umanitaria ai profughi dall’inizio della crisi, proprio il Bangladesh è tra i Paesi principali da cui fuggono gran parte dei migranti arrivati in Europa.

L’accordo era stato delineato già lo scorso novembre, ma le due parti sono incontrate per finalizzare i dettagli nella capitale del Myanmar, Naypyidaw.

Un portavoce dell’Unhcr ha ricordato che il Myanmar deve affrontare le cause di questa crisi e che i rifugiati dovrebbero poter tornare solo quando si sentono al sicuro. Secondo l’agenzia Reuters, nell’accordo non è specificato quando sarebbe iniziato il processo, ma il Myanmar dovrebbe offrire un alloggio temporaneo a quelli che ritornano e che avrebbero dovuto costruire delle nuove abitazioni


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