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Caso Lamina, Bettoni: «Siamo stufi. Non si può morire così. Ora pensiamo alle famiglie»

L’intervento di un presidente Anmil Franco Bettoni particolarmente scosso dai fatti di Milano. «Sono stanco, stufo», spiega in lacrime, «penso a chi ha perso un padre, un marito o un figlio solo perché andava a lavorare. Dimentichiamo ogni dramma fino a quello successivo. Non si può andare avanti così»

di Lorenzo Maria Alvaro

Ieri sera a Milano c’è stato un gravissimo incidente sul lavoro. All’interno della Lamina, azienda che si occupa della produzione di acciaio e titanio, in via Rho (zona Greco), tre operai sono morti poco dopo essere arrivati negli ospedali di Monza, al Sacco e al San Raffaele di Milano. In tutto i lavoratori coinvolti sono sei, uno è in condizioni disperate al San Raffaele, dove è arrivato in arresto cardiocircolatorio. Non ha mai ripreso conoscenza ed è stato collegato all'Ecmo, il macchinario per la circolazione extracorporea. Altri due sono in condizioni meno serie alla clinica Santa Rita. I sei uomini sono stati trovati svenuti, stavano ripulendo un forno interrato. Potrebbero aver respirato vapori tossici. Tutte le persone coinvolte sono dipendenti dell’azienda e stavano svolgendo, stando alle prime informazioni, operazioni definite di routine. Sembrerebbe che non sia scattato un allarme. Una tragedia che avviene dieci anni esatti dopo il caso ThyssenKrupp di Torino dove morirono in sette. Il dramma di Milano arriva in un contesto che vede gli infortuni e le morti sul lavoro crescere, per la prima volta dopo oltre 25 anni, contestualmente al crescere del mercato. Ogni volta che qualcuno perde la vita sul posto di lavoro, ogni morte bianca, la domanda è sempre la stessa: cosa si può fare per evitarlo. Lo abbiamo chiesto a Franco Bettoni, presidente di Anmil – Associazione Nazionale fra Lavoratori Mutilati e Invalidi del Lavoro.


La prima cosa che le chiedo è un commento sui tragici fatti avvenuti ieri alla Lamina di Milano…
È la continuazione di un percorso purtroppo a cui non riusciamo mai a dire basta. Non riesco a trovare le parole. Si continua a morire. Non so cosa dire. Queste persone andavano a lavorare. Non si può morire così. Dobbiamo avere certezza che queste persone siano state formate, messe in condizione di lavorare con gli ausili giusti per fare quello che dovevano. Non è possibile che ogni volta ci si dimentichi dei drammi fino al caso successivo. Le indagini faranno il loro corso. Ma cosa posso dire difronte a tre persone morte sul lavoro? Ogni girono muore o si fa male qualcuno. È difficile parlare. Noi sappiamo cosa significa per la famiglia, il prosieguo, quello che c’è dopo.

Presidente, la sento molto scosso, sta piangendo?
Si, mi scusi. Sono molto scosso. Sa perché?

Posso immaginarlo. Ma me lo dica lei…
Sono stanco. I drammi si vedono dopo, per queste famiglie. E la cosa peggiore è che ci dimentichiamo di queste persone. Io non voglio trovare colpevoli. Non mi interessa. Dobbiamo salvare le persone. Mi perdoni ma sono molto scosso. Sono stufo.

Lei dice che le regole ci sono. Quindi per provare a fermare un fenomeno che nel 2017 è cresciuto del 2% cosa si può fare?
Sì, le regole ci sono. Quello che bisogna fare è verificare assiduamente se siano applicate. Noi continueremo come associazione la nostra battaglia culturale. Continueremo ad arrabbiarci e a indignarci. Tutto questo continuerà. Però io voglio guardare alle persone. Adesso mi interessano le persone

Pensa ai congiunti dei lavoratori che non ce l’hanno fatta?
Sì, penso alle famiglie che oggi hanno perso un padre, un figlio o un marito per sempre. E lo hanno perso perché era andato a lavorare. L’unico modo per uscirne è responsabilizzare tutti. Non serve colpevolizzare. Certo se ci sono responsabilità vanno accertate. Ma il punto è la responsabilità, non la colpa. Dobbiamo combattere per questo. Noi e voi della stampa insieme. Continuando a parlarne.


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