Economia & Impresa sociale 

Zamagni: le nuove sfide dell’economia sociale

La Riforma del Terzo Settore, la rivoluzione tecnologica e il riassetto del welfare al centro di un incontro con l’economista padre dell'economia civile organizzato da Argis al Centro Culturale di Milano

di Marina Moioli

“Le sfide dell’economia sociale: tra nuove leggi, rivoluzioni tecnologiche e riassetto del welfare”. Se ne è parlato nel corso di un incontro al Centro Culturale di Milano organizzato da Argis con Stefano Zamagni, professore ordinario di Economia Politica all’Università di Bologna, considerato uno dei padri, se non il profeta, dell’economia civile. A lui Gianfranco Fabi, presidente di Argis, associazione di ricerca per la governance dell’impresa sociale, ha chiesto di illustrare l’evoluzione del welfare alla luce della riforma del terzo settore e dei cambiamenti dello scenario economico.

Come sta il Terzo settore in Italia?
Prima di Natale l’Istat ha pubblicato i dati sul Terzo settore in Italia, una realtà che riguarda 350mila enti, coinvolge 5.600.000 volontari organizzati e viaggia con un tasso di crescita superiore a quello di tutti gli altri comparti economici. Dal 3 agosto 2017, poi, abbiamo finalmente anche un codice composto da 104 articoli che normano tutti i diversi segmenti. Nel complesso si tratta di una “buona riforma”, che gli altri Paesi ci invidiano, che dà possibilità inedite ma pone anche nuove sfide che come tutte le sfide si possono vincere o perdere. Prima di tutto da notare che si mette fine al regime “concessorio” (sancito dal Libro 1°, Titolo II del Codice Civile) a favore di un “riconoscimento” di ciò che già esiste. Si tratta di un principio filosofico che ci deriva da Aristotele: quello che chi vuol fare il bene non deve chiedere un “permesso”. La prima grande novità della riforma è proprio questa: non c’è più la parola “concede”, ma c’è la parola “riconosce”. E considerato che il 2018 sarà ancora un anno transitorio, in attesa dei decreti attuativi (e il sottosegretario Bobba ha garantito che arriveranno tra pochi mesi), solo dal 2019 il Terzo settore si troverà davanti a questa responsabilità nuova. Altra grande novità introdotta dalla Riforma è il riconoscimento della funzione “produttiva” e non più “redistributiva” del Terzo settore. Anche questa – essere riconosciuti come produttori di valore aggiunto – è una rivoluzione copernicana. È molto bello che ci sia l’espressione “finanza sociale”, mentre finora la finanza era solo quella speculativa. Tra l’altro, chi conosce un po’ la storia economica sa che la finanza è nata in Toscana come finanza sociale. E mi piace ricordare una frase di Luigi Einaudi, quando diceva “le banche dovrebbero essere enti non profit”. Infatti se una banca opera con l’obiettivo del profitto, inevitabilmente interviene la spinta speculativa e i risutati sono sotto gli occhi di tutti. Oggi strumenti finanziari come Social Bond, Social Lending o Titoli di solidarietà permettono ai soggetti del Terzo settore di realizzare i loro scopi senza più la scusa della mancanza di finanziamenti. Noi oggi possiamo emettere obbligazioni sociali, garantite. Sono convinto che se ci sarà un fondo di garanzia da parte dello Stato, l’italiano medio correrà per accedere a nuovi strumenti finanziari.

Ma gli enti del Terzo settore riusciranno a sfruttare in maniera piena queste nuove possibilità?
La risposta non è così scontata, visto che per 70 anni il Terzo settore (termine introdotto da Jacques Delors nel 1983, meglio sarebbe parlare di "Omi", cioè "organizzazioni a movente ideale") è stato come “cloroformizzato” da un eccessivo statalismo che ha tarpato le ali al tradizionale spirito imprenditoriale degli italiani. Per questo è necessario aiutare il mondo variegato del Terzo settore a cogliere questa sfida e a vincerla.

Su cosa si deve insistere per convincere le persone a far maturare queste realtà?
La storia del welfare è una storia affascinante. Per primo nacque, intorno al 1919 in America, il welfare capitalism. Era un patto tra cinque grandi imprendiori che si impegnavano a prendersi cura dei propri dipendenti e delle loro famiglie in base al “principio di restituzione”. Il punto di forza di questo primo welfare era l’efficienza, il punto di debolezza che non garantiva l’universalismo, perché copriva solo i dipendenti di determinate imprese. Il passo successivo, nel 1942, è venuto con il Welfare State messo in pratica da Lord William Beveridge in Inghilterra con l’istituzione del Sistema sanitario nazionale (che in Italia arriva solo nel 1972) sulla base del principio di “redistribuzione”. In questo caso il punto di forza è l’universalismo, quello di debolezza il fatto che non sia finanziariamente sostenibile sul lungo periodo. Va ricordato che in Italia la ricostruzione post bellica non ha causato debito pubblico e che ha comiciato a salire in modo esponenziale solo alla fine degli Anni Settanta. Nessuno stato però può indebitarsi all’infinito e almeno da vent’anni in Italia ci si chiede “Come facciamo?”. Le alternative per risolvere il dilemma sono solo due: il modello americano, che però implica la rinuncia all’universalismo, o il passaggio alla Welfare Society. Vale a dire che tutta la società deve farsi carico del welfare. Ed ecco dove e come può intervenire il Terzo settore, perché non c’è bisogno di essere esperti per capire che i conti del servizio sanitario stanno per saltare.
L’altro fronte aperto su cui intervenire è quello che riguarda la quarta rivoluzione industriale. Oggi occorre cambiare radicalmente l’organizzazione del lavoro, il modo di operare. Le gerarchie di impresa come le conosciamo oggi dovranno saltare e il modello da seguire per riformare l’organizzazione del lavoro è quello di tipo cooperativo. Per il futuro mi aspetto quindi una forte ibridazione tra il mondo profit e quello non profit.
Terzo fronte in cui il Terzo settore è chiamato a dare un contributo importante è quello politico-sociale. Finora siamo stati abituati a suddividere tutto tra “pubblico” e “privato”. Ma c’è una terza modalità da tenere presente come sfera di azione: il “civile”. Una modalità che era già compresa 1.600 anni fa nel Codice Giustinianeo, che distingueva tra proprietà pubblica, proprietà privata e proprietà comune. Quest’ultima è la forma di proprietà tipica degli enti del Terzo settore ed è citata anche nell’articolo 43 della Costituzione. Mi aspetto che il Terzo settore aiuti a capire che ci sono nodi che si possono sciogliere solo adottando una governance di tipo comunitario. Certo, un’assunzione di rischio c’è, ma questo è il momento di rimboccarsi le maniche.

Perché queste problematiche sono del tutto assenti dai dibattiti della campagna elettorale?
«Perché i temi del Terzo settore non sono “appropriabili” da questa o quella forza politica. nessuno può dire in esclusiva “io difendo il Terzo settore”. Il problema semmai è di fare in modo che i decreti attuativi della Riforma non vengano bloccati. Ma dato che questa legge, anche se non è perfetta, è stata approvata all’unanimità io spero che le forze politiche non ne facciano oggetto di caccia per farsi dispetto a vicenda. La Riforma ha principalmente tre difetti: non è stata prevista l’istituzione di una Autorità super partes, non è stato abrogato il Libro 1°, Titolo II del Codice Civile e quindi il doppio regime può creare dei pasticci, non è previsto come risolvere il contenzioso tra Regioni e Stato. Secondo me, contemporaneamente all’entrata in vigore della legge, bisogna chiedere a tutti di aprire alla Sussidiarietà circolare che consentirà a tutti gli enti (ETS) di prendersi in carico nuove capacità. C’è chi dice che “la finanza è una corda, non un bastone” e come tale non può spingere. Oggi invece il Terzo settore ha bisogno di bastoni, di qualcuno o qualcosa che dica: “Andate avanti”, “Non temete” perché questi nuovi strumenti finanziari vi aiutano. Bisogna smettere di guardare tutto in chiave produttivistica e considerare il valore delle esperienze di vita. Personalmente spero molto nell’implementazione e ho motivo di ritenere che si debba guardare al futuro con moderato ottimismo.

Stefano Zamagni è professore ordinario di Economia Politica all'Università di Bologna (Facoltà di Economia) e Adjunct Professor of International Political Economy alla Johns Hopkins University, Bologna Center. Ha insegnato inoltre all'Università di Parma e all'Università Luigi Bocconi di Milano. È tra gli ideatori delle Giornate di Bertinoro per l'economia civile, dedicate alle attività del Terzo Settore in Italia.


Qualsiasi donazione, piccola o grande, è
fondamentale per supportare il lavoro di VITA