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Banche Popolari: una controriforma che porta all’oligopolio bancario

Nel suo ultimo libro, pubblicato da Rubbettino, Corrado Sforza Fogliani analizza nel dettaglio gli effetti della "riforma" che ha messo fine a un'eccellenza italiana: il credito popolare. A vantaggio di chi?

di Marco Dotti

Un’eccellenza italiana. Centocinquant’anni di storia. Un sistema che ha retto l’urto del fascismo e della crisi: quella del ’29 e quella, non meno dura, del 2008. Un sistema che per un secolo e mezzo ha finanziato la crescita e lo sviluppo della piccola e media impresa italiana. Parliamo delle Banche Popolari. Le Volksbanken, istituti di credito concepiti in Germania dall'economista Franz Hermann Schulze-Delitzsch e subito diffusisi in Italia sul finire del XIX secolo grazie all'opera di Luigi Luzzatti, un altro economista prestato alla politica: fu infatti Presidente del Consiglio per circa un anno, dal 1910 al 1911.

Mutualità, governance cooperativa, attenzione al territorio, voto capitario (una testa un voto). Tutto cancellato da una (contro) riforma che, osserva Corrado Sforza Fogliani, presidente dell’Associazione Nazionale fra le Banche Popolari, arriva da lontano e porta diritti nel baratro dell’oligopolio bancario.

Dopo la (contro) riforma del 2015, approntata per decreto dal governo di Matteo Renzi, le principali banche popolari non sono più popolari ma, come dimostrano i documenti pubblicati nella seconda parte del prezioso volume di Corrado Sforza Fogliani Siamo molto popolari (Rubbettino, 2017), banche che rischiano di essere legate a grandi fondi speculativi. Insomma, la finanza globale. Con buona pace dei risparmiatori, del risparmio e dei territori.

Fra i punti più critici, criticati e criticabili della riforma voluta fortemente dall'allora Governo Renzi attuata con decreto-legge n. 3/2015, convertito in legge n. 33/2015 – ricordiamo l' obbligo per le banche con attivi superiori agli 8 miliardi di euro di trasformarsi in società per azioni. Perché? Come è stato possibile indicare nel "voto capitario" (ovvero "una testa, un voto"), tipico del credito popolare, l'origine di ogni male?

«Ci sono tantissime banche e pochissimo credito, soprattuttò per le piccole e medie imprese», osservava nel 2015 Matteo Renzi, alla vigilia di una riforma che si è nutrita di uno storytelling basato su un falso sillogismo ripetuto fino a farlo credere e a crederlo vero: "banche popolari = fattore di instabilità e stagnazione".

Eppure i fatti, che sono forze ostinate, dicono (e dicevano) ben altro. Perché allora tanta ostinazione nel voler indicare proprio le popolari come target? Tanta ostinazione da parte del mainstream porta a credere a un piano preciso dietro la volontà di celare «le proprie reali intenzioni dentro una visione bugiarda e poco obiettiva, che si è insinuata nel mondo finanziario, secondo cui il modello delle popolari negli ultimi 10-15 anni sarebbe degenerato, dando luogo a gestioni non adeguate che hanno impoverito il tessuto economico della nostra penisola, anziché arricchirlo».

Una narrazione, quella che indica nel credito popolare il fattore di instabilità sistemica nella struttura del credito, che va smentita con forza. Dietro lo schermo dell'indignazione popolare per le vicende Etruria e Veneto, si è compiuto il fattaccio. Le popolari sono state prima additate come un'anomalia (e non una positiva eccellenza del sistema italiano) e poi identificate tout court con la mala gestio del sistema creditizio nel suo complesso (banche commerciali incluse).

Ma l'arcipelago delle banche popolari, osserva un economista di lungo corso come Marco Vitale, può essere visto come un'anomalia, per giunta fastidiosa, solo da chi si identifica con la cultura delle grandi banche d'affari. Una "cultura" che fa rima con "gigantismo". Ma è un gigantismo fuori dalla sostanziale verità dei fatti.

Basta leggere la Relazione 2017 di Antonio Patuelli, presidente dell'Associazione Bancaria Italiana per capire che quello del gigantismo industriale e bancario è, nella migliore delle ipotesi, un mito. Nella peggiore, un indizio di malafede.

In un contesto dove il 95% delle imprese ha meno di dieci dipendenti, osserva il Presidente dell'ABI, il saldo della bilancia commerciale 2016 è stato in attivo per 93miliardi per il contributo di piccole e medie imprese. Eppure, stando agli ultimi dati disponibili della Banca d'Italia, proprio le piccole medie imprese vengono penalizzate nel credito.

Nonostante la sbandierata "riforma", leggendoli con attenzione scopriamo che il 10% dei creditori ottiene il 79,8% dei prestiti disponibili e che dei 1.500 miliardi che alla fine dello scorso mese di settembre gli istituti credito italiani hanno erogato a famiglie, imprese e società non finanziarie, 1.200 sono stati prestati a un ristretto numero di soggetti. Insomma, i soliti noti.

Ricorda infine Corrado Sforza Fogliani che una vera riforma fu tentata. Non dal Governo, ma da chi «ha operato all'interno del perimetro delle banche di territorio», ossia da soggetti consapevoli di meriti e limiti della struttura e del modello delle banche popolari.

«Molti di noi si sono adoperati, ben prima che il Governo Renzi provvedesse a dimezzare una struttura bancaria che è stata fondamentale per oltre un secolo per il nostro Paese, a riformare dall'interno il sistema popolari. Per eliminarne i possibili difetti. Per renderlo compatibile con le nuove regole imposte all'economia dalla Grande crisi che negli ultimi dieci anni ha trasformato il mondo».

Anche questo progetto di autoriforma – per la quale era stata costituita una commissione indipendente presso Assopopolari – è stato spazzato via. Ecco perché la parola d'ordine, per non lasciare languire il credito popolare e, con esso, i territori e le imprese, non può che essere «riformare la riforma». Tertium non datur.


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