Cooperazione & Relazioni internazionali

Forza lavoro. Il lato oscuro della rivoluzione digitale

Il "mito" della tecnologia liberante si rivela una forma molto avanzata di sfruttamento e subordinazione, di schiavitù diffusa e a bassa intensità con un alto potere di deterritorializzazione. Una chiave per capire

di Pietro Piro

Quando si parlava di fine del lavoro

Nel 1995 – ovvero più di vent'anni fa – Jeremy Rifkin pubblicava un libro che sarebbe diventato paradigmatico nel dibattito globale sul mondo del lavoro: La fine del lavoro, il declino della forza lavoro globale e l'avvento dell'era post-mercato (Baldini&Castoldi, Milano 1995). Il libro generò un acceso dibattito e vide schierarsi decine d'intellettuali a favore o contro le tesi sostenute dall'autore. Non so quanti ricordino l'ipotesi conclusiva del volume che credo sia utile riproporre in questa occasione.

Scriveva a quel tempo Rifkin: "Il lavoro umano inutilizzato è il fatto fondamentale della prossima epoca, e la questione alla quale sarà necessario trovare una risposta se si vuole che la civiltà riesca a superare l'impatto della Terza rivoluzione industriale. […] Per questa ragione, trovare un'alternativa al lavoro nell'economia di mercato è una questione determinante, sulla quale si devono confrontare tutte le nazioni del mondo; per prepararsi per l'era post-mercato sarà necessario dedicare la massima attenzione alla costruzione del terzo settore e al rinnovamento della vita sociale a livello locale. Diversamente dall'economia di mercato, che si fonda esclusivamente sulla "produttività" è che perciò è indifferente alla sostituzione degli uomini con le macchine, l'economia sociale si fonda sulle relazioni umane, sul senso dell'intimità di comunione, sui legami fraterni, sullo spirito di servizio: qualità che non sono agevolmente riproducibili, ne sostituibili da una macchina. Poiché questo regno non può essere facilmente invaso dalle macchine, diventerà necessariamente il rifugio verso il quale si dirigeranno i lavoratori spiazzati dalla Terza rivoluzione industriale alla ricerca di un nuovo significato e di un nuovo scopo della vita, dopo che il valore del lavoro come risorsa sul mercato formale sarà diventato marginale o nullo" (pp. 457-458).

È innegabile che dal 1995 a oggi i numeri relativi alla crescita del Terzo settore dimostrano una tendenza al miglioramento e alla diffusione di una coscienza alternativa all'economia di mercato ma siamo ancora lontanissimi dal poter pensare che il Terzo settore possa assorbire l'enorme massa di disoccupati, sottooccupati e male-occupati che questa economia planetaria produce in quantità "industriale".

Forse è più centrata la diagnosi dello stesso Rifkin che poche pagine prima scriveva: "una nuova forma di barbarie ci attende aldilà delle mura del mondo moderno: appena al di fuori delle isole quiete suburbane ed extraurbane e delle enclaves urbane popolate da ricchi e quasi ricchi si accalcano orde di esseri umani poveri e disperati: privi di tutto ma pieni di rabbia e con poche speranze di riuscire ad affrancarsi dalla loro condizione, sono i potenziali sanculotti, le masse che, inascoltate, reclamano giustizia e l'ammissione a godere dei benefici della nuova civiltà. Queste orde continuano a ingrossarsi dei milioni di lavoratori che vengono licensiati e che si ritrovano, dalla mattina alla sera , irrevocabilmente chiusi fuori dai cancelli del nuovo villaggio tecnologico globale" (p. 455). Nel 2018 siamo dominati da un sistema economico che esclude e produce oltre che benessere materiale e alti profitti per pochissimi – si prenda come punto di riferimento l'ultimo Rapporto dell'Oxfam – esclusione e marginalità per moltissimi. Un sistema malato che produce iniquità.

Se scompare la forza lavoro

Per riuscire a districarsi nella selva oscura del presente del mondo del lavoro può dunque essere molto utile il lavoro di scavo condotto da Roberto Ciccarelli, Forza lavoro. Il lato oscuro della rivoluzione digitale (DeriveApprodi, Roma 2017).

La rivoluzione di cui Rifkin annunciava l'avvento e le conseguenze per Ciccarelli: "doveva garantire una maggiore autonomia alle persone, ma ha esteso il dominio esercitato in precedenza sui corpi al cervello, alla psiche e agli affetti. La fine del lavoro non è tuttavia alle porte e la sostituzione degli umani con le macchine resterà lontana anche nel 2025 o nel 2050 quando è stato annunciato il suo trapasso alla storia. Già oggi l’automazione mette all’opera la forza lavoro ancora più intensamente, pagandola sempre meno.La scomparsa dei posti di lavoro e la trasformazione incessante delle professioni non sono provocate dai robot, ma da una molteplicità di fattori sociali, economici e produttivi che implicano una profonda trasformazione della forza lavoro e della sua produttività sulla quale sono ancora troppo pochi a interrogarsi. I lavoratori restano doppiamente impotenti: non solo il «vecchio» lavoro li ha lasciati disoccupati in una terra dove non sorge mai l’alba di un nuovo inizio, ma non potranno influire nemmeno sul loro lavoro in futuro, quando si compirà la profezia degli aruspici della tecno-apocalisse. Il racconto sulla rivoluzione digitale in corso ha un cuore antico: l’illusione di un lavoro senza esseri umani, emanazione diretta del Capitale." (p. 8).

Ciccareli vuole porre al centro del suo interrogare la condizione dell'umanità che lavora e non il lavoro estratto dall'umanità perché: "oggi parliamo di lavoro senza parlare della condizione che lo rende possibile, la forza lavoro" (p. 9). La forza lavoro è stata così tanto resa invisibile da essere considerata una mera variabile nei giochi dell'economia e, allo stesso tempo, vive in una condizione paradossale: "La si vuole liberare evocando un rapporto soggettivo con il lavoro «creativo» o sacralizzando l’attività professionale come se fosse un’opera d’arte. E tuttavia il suo lavoro è considerato un residuo archeologico in cui è impossibile identificarsi. La condizione del lavoratore contemporaneo si muove tra un’ingiunzione morale alla soggettività e la gestione strumentale della sua forza lavoro. La sua vita è scandita da due polarità simmetriche: l’iper-lavoro e il sotto-impiego. Al netto della disoccupazione e della povertà assoluta,sono queste le forze centripete e centrifughe di un unico processo di subordinazione" (p. 11). Come uscire da questo paradosso che rende la forza lavoro ancora più debole che nel suo recente passato fatto di lotte e di rivendicazioni, come garantirne l'esistenza? Scrive Ciccarelli: "Il suo diritto all’esistenza va reso effettivo attraverso il reddito di base universale, la libertà di parola e espressione, la libertà dal bisogno e dalla paura, l’amore verso di sé, degli altri e per la futura umanità" (p. 21). Quello che propone Ciccarelli è un recupero d'umanità attraverso la responsabilità della propria liberazione. Una liberazione che passa attraverso la presa di coscienza della condizione diffusa della forza lavoro odierna nell'epoca digitale: "A differenza del macchinismo, l’automazione digitale non separa la macchina dalla forza

La vita resta aperta a ogni determinazione, anche quando sembra non averne più nessuna in una rivoluzione digitale che ambisce a ridurre l’imprevisto a un’automazione. Non sappiamo mai quale sia la potenza, come si acquisisce, dove cercarla. E tuttavia questa potenza è all’opera, altrimenti noi stessi non saremmo in vita. Se non ci sforziamo di diventare attivi, non lo sapremo mai

Roberto Ciccarelli

lavoro, la cooperazione dalla divisione del lavoro. Le integra progressivamente valorizzando l’intenzionalità del soggetto umano al punto che si può immaginare un divenire macchina della forza lavoro e un divenire forza lavoro della macchina.

Nella rivoluzione digitale questa relazione è intesa in senso miracolistico: visto che la forza lavoro è «superata», sulla scena restano solo le macchine. In realtà la «macchina combinata» esiste perché qualcuno continua a vendere forza lavoro e un altro la acquista. Non sono le macchine a produrre la forza lavoro, ma è la forza lavoro a farle vivere nel nuovo rapporto tra capitale fisso e capitale variabile. Tutto dipende dagli scopi per i quali le macchine sono prodotte e dall’uso politico dell’automazione. Nel caso in cui si voglia valorizzare la forza lavoro come facoltà cooperativa, rovesciando il mito del soggetto automatizzato, anche la creazione della tecnologia potrebbe essere diversa. Non più funzionale alla creazione di beni, servizi e merci, ma al potenziamento della cooperazione da cui tutto prende origine" (p. 33). Ci vogliono convincere del fatto che le macchine digitali siano capaci di fare a meno dell'uomo ma in realtà – è questo credo l'intento profondo del libro – "siamo noi che alimentiamo il turco meccanico globale e lo facciamo vivere in ciò che abbiamo in comune: la forza lavoro" (p. 26).

Sfruttamento digitale

È dunque corretto oggi parlare di fine del lavoro? Leggendo le analisi di Ciccarelli il dubbio che si tratti di un grave errore ci assale. Scrive l'autore a tal proposito: "I dati dimostrano invece che la forza lavoro continua a lavorare, sia pure in condizioni drasticamente diverse. Questo significa che il lavoro non è una quantità fissa data una volta per tutte, ma cambia e diviene. Non è un blocco, è una produzione. Finisce, e ricomincia, sempre diverso, a condizione che esista una domanda senza la quale non si produce nuova occupazione.

Anche quando è debole, come oggi, la domanda e l’offerta si trasformano, così come il lavoro che si scambia. L’automazione è una delle cause, non certo l’unica, di questa trasformazione. […] Il lavoro non è finito. È solo finito un modello di lavoro salariato retribuito mentre il lavoro precario si moltiplica anche attraverso l’automazione, il lavoro a termine, l’auto-impiego, le app, al di là dello schema predeterminato del contratto di lavoro. Il cottimo tecnologico, la mansione iper-contingentata e anonima, la prestazione psico-fisica computerizzata saranno applicate alla forza lavoro nel corso della prossima generazione. La «quarta rivoluzione industriale» serve a intensificare lo sfruttamento del lavoro povero digitale e a concentrarlo nei flussi della produzione. […] La strada è tracciata: già oggi viviamo in una società senza occupazione fissa dove lavoratori poveri – salariati e non dipendenti – ricevono una retribuzione inferiore ai due terzirispetto a quelli occupati a tempo pieno. L’automazione è inoltre insidiata dal paradosso della produttività. L’innovazione tecnologica prospettata non aumenta la produttività del lavoro, ma quella delle macchine. Il lavoro sarà sempre di più e sempre più povero. Il capitalismo digitale rafforza questa tendenza e collabora alla politica dei bassi salari. La combinazione tra bassi tassi di crescita, bassa produttività e povertà; la cronica precarizzazione del mercato del lavoro, della polarizzazione tra i redditi da lavoro e quelli prodotti dalle rendite; l’instabilità finanziaria e la mancata proporzionalità del prelievo fiscale; la dismissione del welfare sono l’espressione di uno stesso modello sociale ed economico" (pp. 48-49). Il "mito" della tecnologia liberante si rivela, allora, come una forma molto avanzata di sfruttamento e subordinazione, di schiavitù diffusa e a bassa intensità con un alto potere di deterritorializzazione: "I soggetti catturati da questi dispositivi non hanno alternative: devono risultare occupabili – ovvero disponibili a qualsiasi occupazione – e pronti a eseguire una mansione nella speranza di ottenere in cambio un reddito. L’inoperosità è considerata una colpa dell’individuo, la condizione morale di una forza lavoro di «scarto». Le nuove tecnologie del lavoro esercitano un ricatto morale su questi individui e li spingono a essere attivi, con un enorme dispendio di energia psico-fisica, in una mobilitazione totale della forza lavoro" (p. 51).

Il linguaggio della liberazione

Ciccarelli crede ancora nella possibilità di una liberazione politica che parte dalle condizioni materiali e dal rifiuto della vergogna dell'escluso. Una ripresa della progettualità che permetta di riconnettersi al proprio desiderio di autonomia e uscire dalla solitudine. "Nella prospettiva della liberazione politica, […] la presa di distanza da ciò che si è diventati è accompagnata dalla scoperta che non si è soli al mondo. Oggi ci si può liberare da questa idea per praticare la co-produzione di norme ottenute dall’attivazione delle facoltà a disposizione di una vita. Uomini e donne possono iniziare a usare se stessi come mezzi per gli altri e a creare un’istituzione comune in nome di una reciproca utilità. La libertà non dipende dal capitale umano che si possiede, ma da ciò che è possibile fare e pensare insieme, prima che il possibile sia definito come «capitale umano». La liberazione politica non è l’evocazione di una natura originaria, né la promessa differita di un regno a venire. È il prodotto di una riflessione critica sul modo di vivere, la premessa per afferrare la vita in una direzione differente rispetto a quella stabilita. […] Questa liberazione non può risolversi nell’intimità del soggetto. È il prodotto di una pratica che coinvolge le dimensioni più ampie dell’economia e delle istituzioni ed è identificabile a partire dallo scontro tra due concezioni di libertà.[…] L'esperienza etico-politica della liberazione è basata sulla sperimentazione. Segna l’inizio di un processo disoggettivazione che sospende la norma vigente per praticarne un’altra. Questo processo è il risultato di una concatenazione di condotte alternative che derivano da un’altra pratica di sé ricavata nella soggettivazione dominante. Tale pratica risponde a un’etica e trasforma le forme di vita attraverso un uso differente della vita stessa. Un obiettivo non facile da realizzare perché ilsoggetto-impresa ha inglobato, e trasformato, le identità personali, comunitarie, di classe. Tuttavia, in nessuna epoca della storia una nuova soggettività si è affermata facendo leva solo su quelle precedenti, né si è costruita a partire dalla riproduzione della struttura che la rende possibile. Il nuovo si afferma contro il presente e in ragione di quello che può essere ora. Ci sarà sempre la possibilità di oltrepassare il confine e dare seguito a una liberazione che è già cominciata" (pp. 193-194).

Nessuno credo – esclusi i futurologi visionari – sa con certezza quali saranno gli esiti globali della rivoluzione digitale. Ma è certo che chiunque sarà escluso dai benefici di questa trasformazione dovrà intraprendere un cammino nuovo che porta con sè anche molti elementi "antichi": la cooperazione, la condivisione, l'autodeterminazione, la centralità della comunità. Chi percorrerà questi sentieri? Chi si farà "carico del proprio desiderio di libertà"? Non possiamo non augurarci che siano in molti e ben determinati.


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