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Coopi: così offriamo assistenza psicologica ai sopravvissuti di Boko Haram

Intervista a Serferbe Daba Charlot, psicologo clinico, responsabile delle attività psicosociali di COOPI in Ciad, che nella Regione del Lago è presente con una serie di progetti umanitari, tra cui il sostegno all’istruzione e alla sicurezza alimentare

di Ottavia Spaggiari

Sono circa 127mila i profughi nella Regione del Lago, in Ciad, migliaia di persone in fuga dalle violenze di Boko Haram. È qui che COOPI è impegnata in attività psicosociali, per offrire sostegno a chi è sopravvissuto «persone con traumi profondissimi. Molti di loro hanno visto uccidere i propri cari davanti ai propri occhi», spiega Serferbe Daba Charlot, psicologo clinico, responsabile delle attività psicosociali di COOPI in Ciad.

Che tipo di lavoro state portando avanti con COOPI in Ciad? Quali sono gli obiettivi che volete raggiungere?

Le attività psicosociali si riassumono essenzialmente nello svolgimento di attività ludiche, attraverso un dispositivo itinerante di sostegno psicosociale, oltre che nel sostegno dei bambini con bisogni specifici, in quello dei minori non accompagnati, dei minori soli, dei disabili, dei minori fuoriusciti dai gruppi armati e di tutti i minori che presentano segni di sofferenza psicologica, la cui presa in carico individuale necessita il sostegno di uno specialista. L’attività ludica in questo progetto è fondamentale e viene utilizzata per ristabilire l’equilibrio psicosociale dei bambini che hanno subito traumi, da un lato favorendo la loro socializzazione e dall’altro individuando i minori che presentano segni di sofferenza psicologica, così da assicurare la loro presa in carico psicosociale e psicologica.
Grazie alla collaborazione con gli insegnanti nei punti comunitari, membri del RECOP (rete di protezione della comunità) coinvolgiamo le persone nei giochi tradizionali, mentre con il dispositivo itinerante facciamo attività ricreative, come calcio e pallamano, manuale, come il lavoro a maglia e il modellismo e di tipo creativo e artistico, il disegno.
Abbiamo inoltre uno psicologo clinico che offre sostegno ai bambini con bisogni specifici e alle persone che hanno necessità di un supporto specializzato. Si tratta di un professionista che aiuta le persone a riprendere il controllo della propria vita, aiutandole a sviluppare i meccanismi di resilienza necessari per affrontare il futuro in modo positivo. L’obiettivo delle attività psicosociali, in breve, è di ristabilire il benessere psicosociale delle persone, in particolare dei minori che hanno subito traumi.

Chi sono esattamente i beneficiari di queste attività?

Principalmente lavoriamo con i cosiddetti profughi interni, chi vive nell’area del Lago Ciad ed è fuggito dagli attacchi di Boko Haram. Si tratta di persone che hanno vissuto eventi profondamente traumatici. Molti di loro hanno visto uccidere i propri cari davanti ai propri occhi, altri sono vittime dirette, altri ancora sono stati separati dai familiari senza più avere nessuna notizia.

Quali sono le tipologie di disagio che ricorrono più frequentemente tra le persone a cui offrite aiuto?

La violenza di genere è estremamente diffusa, così come i matrimoni forzati e i matrimoni precoci. Abbiamo rilevato diversi problemi psicologici, come depressione, ansia, disorientamento spazio-temporale, problemi cognitivi, la somatizzazione della sofferenza per i traumi vissuti. Ogni mese registriamo tra le 25 e le 30 persone che necessitano di un sostegno psicologico specializzato.

In diversi casi le famiglie del luogo hanno accolto i profughi letteralmente a casa propria, il che è una cosa estremamente rara per l’Europa. Ci può spiegare il tipo di relazioni che si vengono a creare? Cosa spinge le persone ad offrire un sostegno così forte a chi è costretto a lasciare la propria casa?

Noi lavoriamo soprattutto con i profughi interni che prima vivevano sulle e si sono spostati sulla terraferma a causa di Boko Haram. La comunità ospitante non solo li ha accolti, allestendo dei veri e propri luoghi in cui stabilirsi, ma ha garantito loro assistenza ancora prima che arrivassero gli interventi umanitari. Sicuramente questo è legato ai legami famigliari ancestrali, ma non solo. In Africa, quando qualcuno muore, è la famiglia a farsi carico dei suoi figli. Qualcuno ha detto che, in questo caso, è come se i profughi interni avessero perduto il proprio padre (cioè le loro isole e tutti i loro averi) e i loro famigliari sulla terra ferma si sono fatti avanti, per prendersi cura di loro, come se fossero rimasti orfani. Altre persone invece si sono stabilite su territori che appartenevano ai loro antenati, per questo, nel ricercare una protezione dalle minacce di Boko Haram, è come se dicessero: “Se non sappiamo dove andremo, sappiamo però da dove veniamo”.


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