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“Io sono”: due parole e venti foto per riaprire gli occhi sulle persone

Un mese fa, i fatti di Macerata. Ieri a Firenze un uomo ha sparato e ucciso un passante, Idy Diene, 54 anni, senegalese. Un progetto fotografico ritrae venti rifugiati e richiedenti asilo, portandone in primo piano le singole biografie: "Io sono", due parole a cui c'è bisogno di fare spazio

di Sara De Carli

«Io sono Mohamed, ho diciassette anni. Ho lasciato la Costa d’Avorio per una questione politica. Durante la campagna elettorale del 2015, lavoravo con mio fratello per un candidato. Con i soldi che guadagnavo mi pagavo la scuola e quello che mi serviva per vivere in città, ad Abobo. Ma un giorno un gruppo violento di giovanissimi terroristi molto feroci, il Microbe d’Abobo, ci hanno dato la caccia e quando ci hanno trovato ci hanno bastonato, bastonato e bastonato quasi a morte. Non so come, ma siamo sopravvissuti e riusciti a scappare in Burkina Faso, in Nigeria ed infine in Libia. Lì se sei nero ti trattano come uno schiavo, sei costretto a fare i lavori forzati, ti picchiano e, alla fine della giornata, ti danno pochissimo cibo, a volte neppure quello. Per fortuna dopo alcuni mesi siamo riusciti ad imbarcarci».

Mohamed è il ragazzo della foto di copertina ed è uno dei venti protagonisti della mostra fotografica “Io sono” di Luisa Menazzi Moretti, da pochi giorni inaugurata a Matera. “Io sono”: un titolo semplice ma forte, due parole per cui è sempre più necessario creare spazio. La mostra raccoglie venti ritratti di grandi dimensioni di rifugiati e richiedenti asilo raffigurati secondo i canoni del ritratto borghese, affiancati da brevi testi che ne raccontano la storia, raccolta dalla stessa artista: un oggetto, nella foto, rappresenta il segno di quella vicenda unica, individuale, personale. “Io sono” è la sintesi della volontà di mettere in luce le loro vite singolari di queste persone, «persone prima che migranti», non indistinte. «Ho incontrato persone arrivate nel nostro Paese alla ricerca di una vita migliore. Ognuno di loro ha voluto raccontare la sua storia. Da dove viene, chi è? Questa gente la vediamo da lontano, in televisione, su internet, a volte ci sembra un gruppo indistinto, paiono tutti uguali. Ma sono persone, prima che migranti», afferma la fotografa Luisa Menazzi Moretti.

Il lavoro è stato realizzato nella prima metà del 2017 e ha coinvolto i rifugiati accolti nei progetti SPRAR della Basilicata promossi dalla Provincia di Potenza e dal Comune di Matera e gestiti da Fondazione Città della Pace, Cooperativa Sociale Il Sicomoro ed Arci Basilicata. Le venti persone ritratte provengono da Afghanistan, Pakistan, Siria, Nepal, Libia, Gambia, Nigeria, Senegal, Egitto, Congo, Mali, Costa d’Avorio, Eritrea ed Etiopia.

Oltre a Mohamed ad esempio c’è Adama, che ha solo diciotto anni e viene dal Senegal: «Mio zio mi ha promessa in sposa a un suo amico, era molto vecchio, avevo quattrodici anni. Ho deciso di scappare, da sola. Sono stata costretta ad andare via: o mi sposavo o mio zio mi uccideva». Gambia, Mali, Niger, poi dopo più di un anno la Libia. «È l’inferno, mi hanno umiliato, molto… no, non me la sento di raccontare altro. Dopo alcuni mesi che ero lì sono stata portata sulla costa e messa in una barca, non conoscevo la destinazione. È così che sono arrivata in Sicilia». O Sardar, vent’anni, dal Pakistan: «appena ho compiuto diciassette anni i talebani mi hanno ordinano di andare a combattere con loro, se continuavo a rifiutare, mi avrebbero ammazzano. Sono venuti fino a casa mia e a scuola per minacciarmi. Io sono uno studente, non voglio combattere!».

E ancora Tresor, dal Congo: «Ho due bambini. Avevo un terzo figlio, ma è scomparso nell’acqua durante la traversata. Anche mia moglie è morta. Abbiamo lasciato la nostra casa a causa di un generale, nostro vicino, che voleva uccidermi, ci siamo trasferiti nella provincia di nord Kivu. Siamo riusciti a scappare e abbiamo deciso di lasciare il Paese per andare prima in Algeria e poi in Libia, ma, appena arrivati, ci hanno messi in prigione, anche i bambini. Un uomo mi ha comperato come schiavo, gli serviva un piastrellista, ho preteso che prendesse con sé tutta la mia famiglia. Finito il lavoro, ci ha liberato e portato sulla costa dove si prendono i barconi. Noi non volevamo partire, ma era l’unica speranza di salvezza. Siamo saliti su di un gommone fatiscente. Mio figlio e mia moglie sono morti e con loro altre cinquanta persone». O Mohammad, dal Pakistan, che lavorava a Karachi per un’agenzia non governativa. «Eravamo un bersaglio per i fanatici integralisti. I Tehrik-i-Taliban hanno assassinato i miei sette miei colleghi. Mi hanno più volte minacciato a morte. Non ho avuto scelta, sono riuscito a fuggire con un passaporto falso. Sarò sempre riconoscente all’Italia, mi ha protetto e ha accolto anche mia moglie e le mie tre bambine, che mi hanno raggiunto. Non voglio più pensare alla guerra, penso al futuro: ho preparato un nuovo cv e sono alla ricerca di un lavoro».

“Io sono” ha appena vinto l’One Eyeland Internayional Award (bronze). Il progetto comprende, oltre alla mostra, anche un video e il libro “Io sono”, pubblicato da Giunti Editore. Il lavoro è corredato anche da una speciale guida didattica per sviluppare nelle scuole originali percorsi sul rispetto dei diritti umani. La mostra rimarrà al Museo Nazionale di Palazzo Lanfranchi di Matera fino al 5 aprile, successivamente sarà ospitata a Potenza presso il Museo Archeologico Provinciale (18-31 maggio), a Lecce nel mese di giugno (Complesso Museale del Convento dei Teatini) e a Napoli ad ottobre, al PAN-Palazzo delle Arti.


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