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Droga, Italia: la storia delle sostanze fra istituzioni, élites e consumo di massa

Un lavoro del farmacologo Paolo Nencini ci guida nella storia dei rapporti fra il nostro Paese e le droghe: dal consumo d'élite a quello di massa. Fino alle sostanze come veicolo di pericolosità sociale

di Francesco Paolella

Da molti anni ormai, il problema delle tossicodipendenze fa parte della nostra vita quotidiana. Al di là della contrapposizione fra proibizionismo e antiproibizionismo, i “tossici” sono entrati a far parte stabilmente del panorama delle città e non solo. La repressione del commercio di stupefacenti – e anche del loro possesso – così come l'allarme sociale che, a fasi alterne, si alza su questo fenomeno, sono il risultato della vera e propria “esplosione” nel consumo di eroina, cocaina e droghe sintetiche, avvenuta soprattutto a partire dagli anni Settanta. Un consumo di massa, che ha “proletarizzato” le droghe e che è stato il frutto di un cambiamento anche culturale radicale nel modo di rapportarsi all'uso voluttuario di sostanze psicotrope. Questo è il tema dell'ultimo libro del farmacologo Paolo Nencini, La minaccia stupefacente. Storia politica della droga in Italia (Il Mulino, 2018).

Ma prima? Nella prima parte del secolo passato e anche già nella seconda metà dell'Ottocento, come stavano le cose qui da noi? In generale, la tossicodipendenza è un fenomeno assai recente: «La tossicodipendenza, così come la conosciamo oggi, è un fenomeno relativamente recente, poiché solo di recente, intendendo con ciò l'ultimo paio di secoli, si sono create le opportune condizioni, tecnico-scientifiche, commerciali, socioeconomiche e culturali, perché in un numero di soggetti, relativamente limitato peraltro, l'esperienza edonica derivante dall'assunzione di particolari sostanze psicotrope s'impadronisse del cosiddetto sistema di gratificazione cerebrale orientandone il funzionamento verso il loro consumo compulsivo» (p. 13). Questo libro di Paolo Nencini racconta la “preistoria” della droga in Italia ed inizia a colmare un evidente vuoto storiografico. Nencini lo fa da farmacologo, ma affidandosi in primo luogo alle cronache giornalistiche, alle inchieste parlamentari, ma anche alle fonti letterarie.

In estrema sintesi, la droga, anzi le droghe (l'oppio, la morfina, la cocaina, l'etere) sono state costantemente ricercate e assunte da pochi: il loro uso prettamente elitario ha avuto momenti di indubbia crescita (come negli anni della Grande guerra o in situazioni particolari come l'“impresa fiumana”) e ha conosciuto una lenta ma progressiva intensificazione della sua repressione, dovuta a leggi via via più severe (la prima risale al 1923). Ma, in sostanza, si trattava di fenomeni pur sempre talmente nascosti e marginali da non essere niente di paragonabile a quanto avvenuto decenni più tardi, con la scoperta dell'eroina da parte di tanti, e soprattutto giovani. Non che non ci fossero anche in Italia forti interessi economici criminali legati al contrabbando di stupefacenti: in particolare, l'Italia non è mai stata un luogo di produzione di stupefacenti, ma sicuramente è stato un luogo di transito, specie verso il continente americano.

Sono davvero interessanti le pagine che Nencini dedica alla graduale scoperta, da parte delle autorità politica e scientifiche, della pericolosità (anzitutto sociale) delle droghe: sostanze come la morfina e l'oppio sono state per decenni utilizzate senza particolari cautele come farmaci antidolorifici e ansiolitici ed erano, soprattutto nel mondo anglosassone, somministrati anche ai bambini, soprattutto per tranquillizzarli. Il morfinismo, ben più del cocainismo, è stato forse il primo caso in cui si è mostrata in tutta la sua drammaticità la dipendenza da sostanze.

Nencini dedica giustamente buona parte del volume a un'altra, non meno grave forma di dipendenza: l'alcoolismo. L'alcool, sicuramente più accessibile rispetto alle droghe, è diventato una vera emergenza sociale in Italia negli anni a cavallo fra Ottocento e Novecento e dunque ben dopo che negli altri paesi europei. L'alcoolismo può essere considerato il risultato principale di fenomeni impetuosi come la prima industrializzazione e l'urbanesimo. Il contrasto all'alcoolismo ha incontrato molte più resistente, e anzitutto per ragioni economiche, oltreché culturali, rispetto a quello alle droghe. In Italia non è mai stata presa seriamente in considerazione l'ipotesi del proibizionismo ed anche il fascismo, che cercò, in nome della “difesa della stirpe”, di riportare gli italiani verso una maggiore sobrietà, non ha mai spinto davvero per disincentivare l'uso di alcoolici.


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