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Impatto, condivisione e responsabilità: una rivoluzione per tutti

La ricercatrice del Cergas - Bocconi, interviene nel dibattito aperto da Carola Carazzone. «Continuare a ignorare il bisogno espresso delle organizzazioni di finanziare le proprie capacità vuol dire che la platea di organizzazioni in grado di rispondere a determinati finanziamenti sarà sempre più piccola, formata da soggetti sempre più solidi, che già hanno la possibilità di pagare il proprio capacity building»

di Elisa Ricciuti

In un articolo recente Carola Carazzone solleva la questione, tanto spinosa quanto comune a molte organizzazioni del terzo settore, non solo nel nostro Paese, del finanziamento per progetti e del correlato falso mito del contenimento dei costi di struttura/di gestione dall’altro. Lavorando da anni a contatto con grandi fondazioni da un lato e con piccole e piccolissime realtà del tessuto sociale e culturale dall’altro, il suo contributo ha sollevato numerose riflessioni sul tema dell’impatto, della responsabilità e della sostenibilità del terzo settore, che riassumerei in tre punti fondamentali:

  • finanziare costi di struttura/gestione è sempre un mezzo e mai un fine: è aperta la questione sul se e sul come valutarne l’impatto e assumersi il rischio, e ancor più spinosa la questione della selezione dei partner da finanziare;
  • la questione non attiene agli strumenti di finanziamento, ma agli obiettivi di finanziamento;
  • l’opportunità di finanziare in maniera continuativa la capacità delle organizzazioni va ad allargare la platea del terzo settore in gioco, contribuendo a spezzare il circolo delle “solite” organizzazioni, poche, ricche e ben connesse.

Siamo pronti a tutto questo?

1. Finanziare costi di struttura: sempre un mezzo, mai un fine

Come l’articolo citato ben riporta, da poco più di un decennio il tema del finanziamento per progetti si è imposto con forza nel terzo settore (e ancora prima nella cooperazione internazionale) stimolato anche dalle regole di progettazione dei fondi europei. La pratica del “progettificio” ha sicuramente acuito una inadeguatezza nella capacità delle organizzazioni di aggiornarsi, innovare e rinnovarsi in molte probabilmente già presente.

Immaginiamo allora questo scenario: da domani, i più grandi finanziatori pubblici e privati del terzo settore (Unione Europea, governo, enti locali, grandi fondazioni, piccole fondazioni, banche, imprese…) iniziano a finanziare le strutture, o per meglio dire, i fattori chiave per le organizzazioni per perseguire le proprie mission, e non più singoli progetti. Stiamo parlando di qualcosa di molto concreto: di fondi per assumere personale qualificato non vincolato a uno specifico progetto; di fondi per aggiornare le dotazioni informatiche dell’organizzazione che resteranno patrimonio per lo svolgimento di tutte le attività future della stessa; di fondi per ristrutturare uno spazio altrimenti inutilizzato che possa poi servire a svariate attività, senza dover fornire pezze giustificative dell’uso di tale spazio per uno specifico progetto; di fondi per offrire corsi di formazione al personale amministrativo che spesso in un regime di semi-volontariato “manda avanti la baracca” curandosi di svariati compiti – aggiornare il sito, pagare le bollette, occuparsi delle rendicontazioni, pagare gli stipendi, coordinare i volontari, e così via. Tanto per fare solo alcuni esempi.

Se quindi da domani il finanziatore si occupasse di coprire tutti questi costi, starebbe contribuendo a rafforzare la capacità dell’organizzazione (se volete, chiamiamola pure capacity building) e non il singolo progetto. Benissimo. E come considerare il valore di un simile finanziamento? Come comprendere se e in che misura un sostegno pieno alle organizzazioni, “solo” in virtù della causa che perseguono, sia un investimento corretto e generatore di valore? Un finanziatore sarebbe in grado di affrontare tempi più lunghi, molto più lunghi, per valutare l’impatto del sostegno a una causa? E con che misure? E sulla base di quali indicatori? In altre parole: perché mai un finanziatore dovrebbe farlo?

Immaginiamo che da domani il finanziatore si occupasse di coprire i costi della capacity building dell'organizzazione: come considerare il valore di un simile finanziamento? Come comprendere se e in che misura un sostegno pieno alle organizzazioni, “solo” in virtù della causa che perseguono, sia un investimento corretto e generatore di valore? Perché un finanziatore dovrebbe farlo?

Forse l’unica risposta plausibile risiede nella condivisione di un obiettivo strategico e delle modalità di verifica e valutazione del raggiungimento di tale obiettivo. È possibile pensare che fondazioni e partner – che, come giustamente la Carazzone ricorda, in Italia ancora sono ancora chiamati “beneficiari” – si siedano insieme attorno a un tavolo e condividano non solo gli obiettivi strategici del cambiamento che si vuole raggiungere attorno a un tema rilevante, ma anche il modo in cui questi verranno verificati e in sostanza, in cui verrà valutato se l’obiettivo è stato raggiunto? Sono in grado i vari attori del sistema di accettare che l’azione di sostegno alla struttura sia parte fondante, ma pur sempre mezzo e mai fine, di un cambiamento che si potrà osservare in un arco di molti anni? O forse, diranno alcuni, addirittura non osservabile? Ma, se questo cambiamento fosse osservabile: in un contesto di risorse limitate, come selezionare i partner a cui trasferire i finanziamenti? Con quali regole, quale trasparenza, quale legittimazione?

2. Non strumenti di finanziamento, ma obiettivi: una responsabilità condivisa

La condivisione ha sicuramente almeno un lato positivo: è responsabilizzante per definizione. Nel momento in cui si accetta di condividere obiettivi e modalità di valutazione, si accetta anche di co-responsabilizzarsi attorno agli stessi. Questo significa che ognuno, nel cambiamento di un sistema, deve fare la sua parte. Il finanziatore può operare un importante cambio di passo e (ritornare a) finanziare costi di gestione e di struttura, se l’organizzazione può accettare di condividere obiettivi strategici e modalità di raggiungimento, magari in alcuni casi mettendosi in gioco profondamente, in un processo di rinnovamento non facile. Si può addirittura ipotizzare un sistema, anch’esso naturalmente condiviso, di incentivi/sanzioni per le organizzazioni che utilizzano i fondi in modo virtuoso/vizioso? E si può ipotizzare che al tavolo della condivisione non siedano solo i partner di cui finora abbiamo parlato – finanziatori e finanziati – ma anche il soggetto pubblico (al quale Federico Mento ha lanciato un appello in proposito) e chiunque voglia contribuire all’obiettivo condiviso, partecipando di conseguenza anche a sostenere parte dei costi e dei rischi? Di certo il dibattito sulla funzione della valutazione come strumento di governo verso obiettivi condivisi, e sul connesso grado di rischio, potrebbe essere più ricco.

Il finanziatore può operare un importante cambio di passo e (ritornare a) finanziare costi di gestione e di struttura, se l’organizzazione può accettare di condividere obiettivi strategici e modalità di raggiungimento, magari in alcuni casi mettendosi in gioco profondamente, in un processo di rinnovamento non facile.

Se tutto questo è vero e accettabile, diventa chiaro che il finanziamento non è una questione di strumenti: è una questione di visione. Per dirla in altri termini: ben venga anche il “vecchio” bando, purchè l’oggetto sia un obiettivo strategico condiviso, e di conseguenza copra tutto ciò che si ritiene giusto coprire per raggiungere quell’obiettivo. In alcuni casi, quindi, anche costi di struttura, con un sistema di valutazione dei risultati da raggiungere condiviso anch’esso ed effettivo (non “sulla carta”).

3. I (soliti) pochi, grandi, ricchi e ben connessi

Da ultimo, il rischio del non cogliere l’opportunità di un cambio di passo è elevato. Uno di questi – forse il principale – è quello di continuare ad alimentare una spirale di ineguaglianza nell’accesso ai fondi della quale non potrà che soffrire l’intero sistema. Continuare a ignorare un bisogno espresso delle organizzazioni di finanziare le proprie capacità vuole dire che la platea di organizzazioni in grado di rispondere a determinati finanziamenti sarà sempre più piccola, formata da soggetti sempre più solidi, che già hanno la possibilità di pagare il proprio capacity building (sempre per essere concreti: assumere professionisti, formare dipendenti o volontari, pagare consulenti strategici, commissionare ricerche, e così via) e che, infine, sono sempre i soliti noti a rispondere sempre ai soliti bandi.

Continuare a ignorare un bisogno espresso delle organizzazioni di finanziare le proprie capacità vuole dire che la platea di organizzazioni in grado di rispondere a determinati finanziamenti sarà sempre più piccola, formata da soggetti sempre più solidi, che già hanno la possibilità di pagare il proprio capacity building

Per dirla in un modo che la letteratura su filantropia e potere ha ormai da tempo sottolineato, le connessioni con le élite – politiche, scientifiche, di informazione, di impresa – si rafforzano, le possibilità si moltiplicano, tutto per un paniere sempre più chiuso di soggetti. Una spirale letale per un piccolo terzo settore, che certamente non è tutto da finanziare per buonismo (ci mancherebbe!), ma che spesso non ha neanche lontanamente la capacità di potersi mettere in gioco per dimostrare di essere meritevole. Lavoro con piccole realtà locali da tempo e chi si occupa di questo settore ne conosce una miriade. La validità dei loro metodi e la solidità delle loro esperienze spesso non corrispondono all’essere tanto “smart” da poter rispondere a determinati bandi.

Una discussione più aperta sui rischi connessi a un cambio culturale di questo tipo, sulle responsabilità e sui meccanismi di valutazione e di selezione dei partner beneficerà certamente di numerosi contributi a venire. Nel frattempo, c’è molto lavoro da fare, per tutti.

*Elisa Ricciuti, assegnista di ricerca presso l'Università Bocconi, è responsabile della ricerca su nonprofit e filantropia presso il CERGAS – SDA Bocconi School of Management

Foto Pexels


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