Solidarietà & Volontariato

Perdere il lavoro, smarrire il senso

Per chi e perché lavoriamo? Perché sacrifichiamo così tante energie in un’attività che spesso ci porta a vivere tante ore lontano dalla famiglia, dagli amici, dalle nostre passioni? Un dialogo con il sociologo Pietro Piro

di Marco Dotti

Per chi e perché lavoriamo? Perché sacrifichiamo così tante energie in un’attività che spesso ci porta a vivere tante ore lontano dalla famiglia, dagli amici, dalle nostre passioni? Vivendo in contatto quotidiano con persone che hanno perso il lavoro e che si trovano in condizioni socio-economiche di marginalità, non posso che affermare che lavoriamo per la dignità, per non sprofondare nella miseria, per non perdere il diritto di partecipare attivamente alla vita sociale ed economica. Un dialogo con il sociologo Pietro Piro.

L'otto marzo è stato pubblicato il suo nuovo saggio dal titolo Perdere il lavoro, smarrire il senso. Esperienze educative e altri saggi di sociologia critica (Mimesis, Milano-Udine 2018. Quali sono i temi principali del volume?
Innanzitutto, ritengo molto significativo il fatto che il libro sia uscito proprio nella data in cui le donne hanno organizzato scioperi e mobilitazioni in tutto il Paese. Come Lei certamente saprà, le Nazioni Unite hanno messo in evidenza che in media le donne guadagnano 23% in meno degli uomini e che questo sopruso è stato definito "il più grande furto della storia". Ho potuto "toccare con mano" come la discriminazione sulle donne in ambito lavorativo rappresenti uno dei fattori di limitazione più importante per l'autonomia delle donne. Sono convinto che credo le donne possono portare in ogni ambito lavorativo innovazione e creatività di grande qualità. E tuttavia, questo processo è sabotato continuamente da una visione della società maschilista e retrograda. Tornando al tema del libro, il nucleo centrale del volume è costituito dalle esperienze maturate come educatore sociale nel supporto alla ricerca del lavoro di persone svantaggiate che si affidano all'aiuto dei Servizi Sociali. Affiancando le persone in difficoltà, ho potuto maturare delle osservazioni sull'importanza che il lavoro svolge in una società come la nostra e su quali siano le conseguenze di una disoccupazione prolungata nel tempo. Ho sentito il bisogno di non disperdere queste osservazioni e di "fissarle" in questo volume.

Perché perdere il lavoro può significare perdere il senso della vita?
La perdita del lavoro o l'incapacità prolungata nel tempo di poterne trovare uno, colpisce le persone in modo molto differente. Tutto dipende dall'età, dalle esperienze maturate in passato, dalla rete di relazioni che si è riusciti a costruire, dalle "risorse" economiche e familiari. Un ragazzo di ventiquattro anni che perde il lavoro, sé non ha problemi di tipo psicologico che ne limitano l'agire e non ha un carico familiare importante, dopo una prima fase di delusione e di amarezza, può trasformare la frustrazione in una spinta forte per cercare un nuovo lavoro che sia migliore del precedente e realizzarsi. Per un uomo di cinquantacinque anni invece la perdita del lavoro può rappresentare una caduta nell'abisso della disperazione. Non credo possa esistere una risposta univoca. Di certo, credo sia possibile affermare che per le cosiddette "persone comuni" la perdita del lavoro può rappresentare una perdita di dignità, di relazioni, di autonomia, di certezza, di "posto nel mondo", che può condurre a sentimenti di frustrazione, scoraggiamento, depressione. Nei casi più gravi anche alla morte.

Nella prefazione Lei si chiede Per chi e perché lavoriamo? Da dove nasce questa messa in discussione dell'"ordine del discorso"?
Il contatto quotidiano con le persone in difficoltà mi ha fatto molto riflettere sulla "natura" del lavoro. Lavoriamo solo per il denaro, oppure, c'è un senso più profondo nel passare gran parte della propria vita impegnati in una professione? Le persone senza lavoro che ho incontrato hanno vissuto una esperienza di "decentramento" psicologico molto importante e che credo debba essere approfondita dagli specialisti. Hanno perso "il loro posto nel mondo", non si sentono più cittadini con dei diritti, si sentono parte di un sistema "cannibale" che dopo aver divorato le loro migliori energie li espelle senza nessuna pietà. La persona si sente schiacciata da un sistema sociale ed economico incomprensibile, inumano, violento, che prima ti sfrutta e dopo ti scarta. Ma ancora più diffuso è un sentimento d'inutilità, di vuoto, di spaesamento totale. Di fronte a questa sofferenza, ho potuto intuire che lavoriamo per non perdere la dignità e per avere "un posto nel mondo". La nostra "cittadinanza" passa ancora oggi dal lavoro e chi ne è privo non si sente più parte della società in cui vive.

Perché è così importante affiancare le persone che hanno perso il lavoro con un educatore?
Proprio perché la frustrazione e la disperazione possono togliere quella lucidità e quel distacco necessari per agire in maniera appropriata. L'educatore lavora instancabilmente per riattivare la fiducia, per valutare le risorse positive accumulate, per suggerire percorsi di crescita personale. La perdita del lavoro e la prolungata disoccupazione innescano dinamiche negative: l'incapacità di pagare gli affitti e le utenze aumenta il senso di precarietà e di fragilità sino ai tragici epiloghi con sfratti e affidamento a strutture di accoglienza. L'assenza di lavoro incide sulla salute, molti infatti, interrompono le cure con un conseguente aumento di malessere fisico e mentale. I legami familiari si diradano e s'innescano conflitti spesso sopiti in una condizione di benessere. La rete amicale si polverizza e le forme di dipendenza che precedentemente, potevano essere contenute e controllate, possono esplodere con violenza. Ritengo che la perdita del lavoro sia un trauma che può compromettere dell'equilibrio psicologico. Il lavoro educativo si colloca in questa "tempesta" esistenziale e può rappresentare un "faro" che guida in questa pericolosa navigazione fino a mari più calmi.

Quali sono i principali fattori di "limitazione" delle persone che ha incontrato nel suo lavoro?
Cosa chiede oggi il mondo del lavoro anche per i lavoro considerati più umili? Mobilità, reperibilità, disponibilità, competenze, flessibilità. Difficilmente una persona in difficoltà riesce a soddisfare tutte queste richieste in condizioni d'indigenza. Esistono poi delle delle difficoltà "strutturali": esperienze pregresse di lavoro non specializzato, frammentario, discontinuo, irregolare; licenziamenti con o senza giusta causa, dissidi legali con il datore di lavoro, retribuzioni arretrate non pagate e altre forme di conflittualità non risolta; tirocini e forme d'inserimento lavorativo non riuscite; basso livello di scolarizzazione; bassa competenza linguistica (nessuna competenza di altre lingue); analfabetismo informatico; esperienze traumatiche; legami familiari deboli o assenti; rete relazionale debole o assente; tendenza a sviluppare forme di dipendenza.

Il lavoro educativo accelera i processi (di ricerca, di consapevolezza, di analisi) ma non li crea. Dove i processi sono assenti (per i motivi più disparati) resta un "vuoto" che può essere colmato solo con un complesso lavoro socio-educativo di sistema (integrando i piani educativi, sociali, culturali, sanitari, economici). Il lavoro educativo è, a mio avviso, sempre prezioso perché fornisce alla persona un alterità positiva con cui confrontarsi e specchiarsi. Il legame di fiducia che si crea aiuta la persona a orientarsi. C'è però un grande pericolo nel lavoro educativo: creare un aspettativa di cura e di fiducia che poi si vanifica in un vuoto sistemico. In una miseria d'opportunità concrete che paralizza la Speranza.

Non possiamo, in questa breve intervista, ripercorrere per intero i molti stimoli che il suo volume ci suggerisce. Vorremmo chiederle però, se c'è un argomento che ritiene di particorale importanza?
Nel 1955 Adriano Olivetti chiedeva ai suoi operai di Pozzuoli: "Può l'industria darsi dei fini? Si trovano questi semplicemente nell'indice dei profitti? Non vi è al di là del ritmo apparente qualcosa di più affascinante, una destinazione, una vocazione anche nella vita di una fabbrica?". Io credo che l'attualità di questa domanda sia sconcertante. Perché lavoriamo? Questa dimensione di senso resta fondamentale. Abbiamo bisogno tutti di lavorare per costruire la nostra identità e quella della civiltà in cui viviamo. E' evidente che oggi si è perso di vista che il lavoro non è semplicemente uno scambio di merci ma piuttosto un processo dinamico che costruisce la cittadinanza. Occorre, dunque, mobilitare la forza creativa dei lavoratori e rimettere il lavoro liberato dalla schiavitù dello sfruttamento al centro di una società uomini di attivi e operosi che cooperano invece di competere. Utopia? Credo che sia la più ragionevole delle possibilità, la più realistica.


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