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Cambogia: lo scandalo adozioni tocca anche l’Italia

L'organizzazione cambogiana Licadho ha raccolto la denuncia di una donna cambogiana: quattro dei suoi sei figli sono stati adottati in Italia fra il 2008 e il 2009, con molti punti oscuri sull'abbandono effettivo dei minori. La direttrice presto in Italia

di Sara De Carli

C'è una donna cambogiana. Una donna semplice, che vive coltivando alberi della gomma, a qualche ora di distanza da Phnom Pen. Ha sei figli. Quattro di essi sono stati adottati in Italia fra il 2008 e il 2009. Insieme sono ritratti sulla copertina del report che Licadho, una organizzazione cambogiana per i diritti umani, ha appena pubblicato: “I bambini rubati della Cambogia. Frode e corruzione nel sistema delle adozioni internazionali”.

La vicenda raccolte a ricostruita da Licadho risalgono al 2008, quando una vicina suggerì alla donna di mandare i bambini in un orfanotrofio di Phnom Pen, dove avrebbero potuto andare a scuola. Il direttore dell’orfanotrofio, contattato dalla vicina, raggiunse la famiglia e spiegò che «i bambini avrebbero potuto vivere all’orfanotrofio senza spese, avere un’istruzione e un buon lavoro. Non disse nulla dell’adozione». La storia inizia così, con un sogno e una speranza che si contrano con i limiti della povertà, dell’ignoranza e della buona fede. Il report è molto dettagliato nel ricostruire quanto è avvenuto, fra carte firmate dalla donna senza che nessuno le spieghi cosa ci sia scritto e il dono di un telefono cellulare e di 100 dollari. La parola adozione compare sulla scena due mesi dopo che i bambini sono all’orfanotrofio: il direttore parla di una fortuna, che i bambini avrebbero potuto «rimanere in contatto» con lei e che le famiglie «avrebbero mandato «informazioni sui bambini ogni sei mesi». Ma soprattutto che «a 15 anni avrebbero potuto tornare in Cambogia insieme ai loro genitori adottivi» e a 18 da soli. I genitori acconsentono, per quanto le informazioni siano ingannevoli. Ma poi cambiano idea e dopo le vacanze di Pchum Ben non riportano i figli in orfanotrofio. Mandano tre figli da alcuni paranti, tenendo con sé la più piccola. Quando il direttore dell’orfanotrofio torna al villaggio per riprendere i bambini, la donna si nasconde nella piantagione, ma la vicina dice al direttore dove si è nascosta. Il direttore insiste col dire che non possono più cambiare idea. I dettagli di questo dialogo hanno dell’incredibile: tanto possono la povertà, la paura e l’ignoranza. L'abbandono, per quanto scelta combattuta nel cuore della donna e a cui ripenserà di sicuro nel tempo, c'è: la testimonianza della donna fa ben comprendere quanto sia complesso e quante sfumature abbia in queste situazioni di povertà il tema di un consenso informato.

Alla fine, quattro bambini partono per l’Italia, adottati da famiglie italiane. Ci sono lettere datate 2008 e 2009, afferma Licadho, con cui il Ministero degli Affari Sociali della Cambogia (MoSAVY) attesta che in base alle proprie ricerche, i bambini sono orfani e in stato di abbandono. Ci sono anche certificati di nascita che abbassano l’età dei bambini di 4, 3 e un anno. La donna ha potuto vedere alcune foto di due dei sui figli, finché nel 2016 il cellulare del direttore dell’orfanotrofio ha smesso di funzionare. Nel 2017 si è rivolta a Licadho, che ha iniziato a raccogliere e documentare la sua storia: molte famiglie nemmeno sanno che c’è qualcuno a cui ci si può rivolgere.

Il report parla di altre due donne, i cui figli sono stati dati in adozione in Austria nel 2005 e negli Usa nel 2001, sempre da orfanotrofi della zona di Phnom Pen. «È probabile che questi tre casi non siano eccezioni e che ci siano centinaia se non migliaia di famiglie in Cambogia con storie simili», scrive il report. Licadho afferma cdi aver chiesto al MoSAVY informazioni sui quattro bambini nel maggio 2017, senza ricevere per ora risposte. Nell’ottobre 2017 analoghe richieste di chiarimenti sono state inviate in Italia alla CAI, che finora non avrebbe risposto alla lettera. Il ministero della giustizia austriaco invece, interpellato nel novembre 2017 sul caso che ha coinvolto quel Paese, ha risposto nel marzo 2018. Fra le raccomandazioni che chiudono il report di Licadho, c’è la richiesta che MoSAVY e il governo italiano rispondano immediatamente su questa vicenda, oltre a quella di facilitare i contatti tra i minori e le loro famiglie d’origine. Pierfrancesco Torrisi, avvocato esperto di adozioni internazionali, è in contatto con la direttrice di Licadho, Naly Pilorge, che nelle prossime settimane sarà in Europa: «Ci incontreremo, verosimilmente a fine aprile, per valutare se presentare un esposto davanti alla Procura italiana per questa vicenda», dice.

Negli stessi giorni, Licadho ha pubblicato anche un video che raccoglie la testimonianza di un'altra donna, che appare con il suo volto e il suo nome e cognome. Anche lei ha quattro figli che sono stati adottati in Italia e anche lei afferma che all'epoca, nessuno le avesse spiegato esattamente cosa fosse l'adozione. «Perché ho creduto a quelle persone?» si chiede la donna nel video: «Se potessi riportare indietro i miei bambini, farei la cosa giusta». Quella donna, dopo tutti questi anni «non si aspetta di riavere i suoi figli, vuole solo sapere dove siano», dice Licadho nel video.

La Cambogia ha chiuso le adozioni internazionali nel 2009, proprio per i sospetti di adozioni illegali o quantomeno opache. Fra il 1987 e il 2009 secondo il report di Licadho sono stati adottati 3.696 minori cambogiani. All’inizio degli anno 2000, diversi paesi hanno sospeso le adozioni dalla Cambogia, mentre l’Italia ha continuato ad adottare nel Paese fino alla chiusura delle adozioni. Secondo i report statistici della Cai, fra il 2002 e il 2009 coppie italiane hanno adottato in Cambogia 712 minori, partendo da 14 bambini nel 2002. Nel 2008 e nel 2009, gli anni in cui si sono verificati i fatti riferiti dal report di Licadho, l’Italia ha adottato rispettivamente 188 e 50 minori, con un’età media di 3 anni. Nel 2008 il 98% dei bambini adottati in Cambogia è entrato in Italia. Gli enti autorizzati dalla Cai ad operare in Cambogia erano otto, con un numero di adozioni concluse che andava, nel 2008, dalle 9 del Ciai e di S. Egidio alle 76 di Cifa. A inizio marzo la vicepresidente della CAI Laura Laera si è recata a Phnom Penh, al Ministero degli Affari Sociali, dove ha incontrato il sottosegretario di Stato Sourng Menglong e la Direttrice Lev Sopheavy: «si è potuto riaprire un positivo canale di comunicazione abbandonato da alcuni anni, dopo la firma dell’accordo bilaterale del 17 settembre 2014 a cui la parte italiana non aveva dato esecuzione», riferisce il comunicato pubblicato sul sito. Lo stesso Licadho afferma che la riapertura delle adozioni internazionali potrebbe avvenire «presto», ma il parere della organizzazione è che «se questo accadesse, non c’è nulla che garantisca il ripetersi di frodi e corruzioni e c’è un alto rischio che gli abusi del passato si ripetano anche in futuro». Per Paola Crestani, presidente del Ciai, «la preoccupazione sul rischio di frodi era nota e condivisa, Ciai aveva segnalato alla Cai questa situazione. Le adozioni andavano chiuse, ma ora tutti i soggetti coinvolti hanno la responsabilità di fare tutto ciò che è necessario per riaprirle, perché di bambini che ne hanno bisogno purtroppo ce ne sono molti. Le adozioni internazionali devono essere fatte bene e solo per quei bambini a cui servono».

Aggiornamento 5 aprile ore 9.14

Questo articolo aveva inizialmente sovrapporto erroneamente due storie: quella della donna che porta la sua testimonianza nel video e quella di una donna il cui nome non viene fatto, la cui testimonianza è riportata nel report di Licadho come caso n. 3. Entrambe le donne hanno quattro figli e si sono rivolte a Licadho. I bambini sono stati adottati da famiglie italiane. Le due storie in realtà vanno separate. Ce lo ha spiegato la direttrice di Licadho, Naly Pilorge, che in questo articolo afferma che «i miei collaboratori hanno ricevuto tre casi, che coinvolgono 11 bambini adottati in Italia, tutti nel 2008. Un caso, il caso 3 del report, riguarda 4 bambini, il caso del video, riguarda anch’esso 4 bambini e altri 3 bambini sono della sorella di quella donna». La famiglia ritratta sulla copertina del report è quella della donna del caso n. 3 del report. Licadho, ribadiamo, afferma di aver informato la Cai rispetto al caso riportato nel report ma non per quello di Neang Yun. L'articolo è stato modificato per una maggior chiarezza.

Foto tratta dal report di Licadho


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