Attivismo civico & Terzo settore

Servono leader e manager per un terzo settore di qualità

Il direttore di Ciessevi Milano, Marco Pietripaoli, interviene nel dibattito sui limiti del modello dei finanziamenti a bando nel Terzo settore lanciato da Carola Carazzone, segretario generale di Assifero

di Marco Pietripaoli

Negli ultimi 15 giorni, grazie a un “coraggioso” intervento di Carola Carazzone, si è aperto un interessante dibattito pubblico sull’opportunità di finanziamento degli enti di terzo settore per obiettivi strategici e non solo per progetti, arricchito dai contributi di Federico Mento, Elisa Ricciuti, Sergio Marelli, Tiziano Blasi e Christian Elevati. Quest’ultimo ha allargato la riflessione alla precondizione degli enti stessi di avere leadership più forti a scapito di management.

Credo che le due questioni siano davvero correlate, ma forse vi è un altro tema a monte per evitare l’agonia del terzo settore richiamato nel titolo dell’intervento di Carola Carazzone.

Il nodo, anche alla luce della recente Riforma del terzo settore, è che tipo di enti con finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale immaginiamo debbono svilupparsi nei prossimi due decenni, a partire dal ricchissimo e multiforme patrimonio che i cittadini hanno autocostruito dagli anni ’70 del secolo scorso ad oggi. Un patrimonio che ha evidentemente nella varietà la sua cifra principale, sia di motivazioni che di contenuti di intervento, sia di modalità d’azione che di tipologia di organizzazione.

Il dato che più balza agli occhi è che però la grande varietà oggi ha portato a grande frammentarietà.

I recenti primi dati ISTAT del Censimento permanente delle Istituzioni Non Profit italiane (di cui solo una parte delle 336.275 rilevate si identificherà nel Terzo Settore e si iscriverà nel Registro Unico del Terzo Settore) evidenziano che l’80% delle istituzioni opera con volontari, con una media di 20 volontari, e che solo il 16% ha anche dipendenti, con una media di 14 dipendenti.

Il 50% delle prime realtà ha meno di 10 volontari e il 78% delle seconde ha meno di 10 dipendenti; solo il 4,5% del totale ha un budget superiore a 550.000 euro.

Le Istituzioni Non Profit italiane hanno inoltre una spiccata capacità di relazione con stakeholder sia interni che esterni per attività (in ordine di priorità) di consultazione, progettazione, valutazione dei risultati, fornitura di spazi e strumenti, e infine per il finanziamento (tra queste soprattutto quelle di Cooperazione internazionale).

Questi dati sintetici evidenziano (per chi non fosse già addentro alle dinamiche di queste realtà) come negli anni si è costituito un mondo polarizzato tra tantissime organizzazioni molto piccole (nanismo) e poche organizzazioni molto grandi (gigantismo). Che poi è la stessa questione tipica dell’impresa italiana.

Anche nel terzo settore credo servirebbe un aumento di realtà di medie dimensioni, che potenzino, sviluppino, ottimizzino gli interventi sul territorio per il miglioramento della qualità della vita di tutti i cittadini, anche di quelli più svantaggiati. La recente Riforma del TS a proposito offre dei segnali contraddittori: mentre da un lato indica che per essere OdV e APS occorre avere almeno 7 soci (si poteva osare di più ?) dall’altro evidentemente stimola e favorisce solo le grandi reti associative (almeno 100 soci e 500 per le nazionali). Forse servivano strumenti e incentivi per promuovere enti di medie dimensioni o almeno la possibilità di permettere di stipulare contratti di rete anche al mondo associativo.

Mentre nel mondo dell’impresa questo fenomeno sta avvenendo su spinta del mercato (talvolta anche in modo brutale) e delle organizzazioni di categoria o delle Camere di commercio, nel terzo settore servirebbe oggi una maggiore determinazione da parte dei leader e dei manager delle istituzioni non profit, che potrebbero cogliere questo tempo, prima dell’avvio del Registro Unico del TS, non solo per modificare lo statuto della propria organizzazione, ma soprattutto per:

  1. costruire una visione sul futuro del bisogno sociale che vogliono affrontare coinvolgendo altri cittadini;
  2. valutare se e come aggregarsi ad altri enti e/o reti e come strutturarsi al proprio interno al fine di aumentare la propria capacità di incidere nel proprio ambito d’intervento;
  3. determinare quali strategie e alleanze adottare per reperire le risorse economiche necessarie per sostenere sia la struttura operativa che gli interventi sul campo, probabilmente in modo diversificato se saranno prioritariamente una organizzazione non commerciale o commerciale.

In questa prospettiva mi auguro che cresca una domanda da parte di enti (non solo della cooperazione internazionale e della cooperazione sociale) che sappiano articolarsi con una struttura un po’ più “professionale”, che a seconda della tipologia di intervento e delle necessità potenzino l’apporto di volontari e/o di dipendenti, ma che soprattutto sappiano cercarsi e quindi aumentare un mix di finanziamenti dagli associati, dai donatori privati, dai fruitori paganti (se possono), dal pubblico e dagli enti filantropici.

Ma come ben sappiamo spesso la domanda viene indotta anche dall’offerta, e qui ben venga che gli enti filantropici decidano di finanziare, non solo tramite bandi ma anche tramite partnership su obiettivi strategici individuati, altri enti di terzo settore che, oltre ad avere ottimi progetti, dimostrino di volersi strutturare in modo più efficace e efficiente tramite fusioni, aggregazioni e azioni di rete per delle cause ben delineate. Il nodo quindi non è avere costi di struttura alti o bassi, ma avere una struttura interna utile per far che cosa? Per occuparsi di rendicontazioni e burocrazia oppure per impegnarsi in attività di organizzazione, ricerca, innovazione e cultura indispensabili per realizzare attività davvero utili per la causa scelta? Comprendo che per una fondazione filantropica sia difficile discernere quali enti hanno struttura che investe in sviluppo (sostenibile), ma se oggi non lo fa una fondazione (soggetto più libero e geneticamente più vicino agli altri Enti di terso Settore) da chi ci possiamo aspettare questo salto di attenzione?

Contemporaneamente anche i Centri di Servizio del Volontariato, nella loro nuova dimensione di agenzia di sviluppo locale del volontariato e della cittadinanza attiva (come li ha definiti Luigi Bobba e come si stanno auto ridefinendo), potrebbero potenziare l’aiuto e l’accompagnamento alle organizzazioni di terzo settore sia nella consapevolezza dell’utilità di un più robusto dimensionamento strutturale/organizzativo che nella capacità di gestire questa nuova prospettiva: ad esempio con consulenze e formazione che sostengano la crescita quanti/qualitativa delle proprie attività territoriali, da attuare aggregandosi e/o in partnership con altri soggetti non profit, pubblici e privati, e verificarne il conseguente impatto sociale e culturale.

Credo che con queste azioni si potrebbe offrire un sostegno a quelle organizzazioni che contestualmente sappiano far emergere leader di visone e manager capaci di tradurla in gestione con relativo capacity buiding interno. Perché visione, missione, strategie operative e finanziamenti devono procedere a braccetto per una nuova “classe di leader e manager” per organizzazioni di terzo settore di qualità.


Qualsiasi donazione, piccola o grande, è
fondamentale per supportare il lavoro di VITA