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Vittorio Strada: addio all’uomo che ci ha insegnato a guardare la Russia

La scomparsa all'età di 88 anni di Vittorio Strada, uno dei più importanti intellettuali italiani. Con i suoi libri e il suo inesauribile rigore intellettuale ha saputo offrire uno sguardo sempre libero sull'Unione Sovietica prima e sulla Russia di Putin oggi

di Marco Dotti

Vittorio Strada era un uomo gentile, di una gentilezza antica. Quella gentilezza che, nei pochi, si sposa col rigore intellettuale e con la pretesa di una sola cosa: essere all'altezza del proprio tempo. Costi quel che costi. Slavista, intellettuale raffinato e mai allineato, era nato a Milano nel 1929 e dopo la guerra, con la famiglia quasi sul lastrico, scelse di iscriversi all’Università dove poi si sarebbe laureato con una tesi sul “materialismo dialettico sovietico” con Antonio Banfi, lo stesso che poco dopo gli offrirà una borsa di studio di tre anni a Mosca.

«Vinsi una borsa di studio per Mosca, raccontava, e «raggiunsi Odessa in nave. Arrivai portando con me il mito della Rivoluzione. E con l'illusione di trovare un mondo diverso. Ad ogni stazione venni accolto da una folla delirante: era il 1957, e di stranieri se ne vedevano pochi. C'era l'idea dell'italiano canterino e ci accoglievano pregandoci di intonare canzoni del tempo. Pezzi partigiani. Ci vedevano quasi come degli alieni e sfogavano così questa voglia di prendere contatto con un mondo estraneo e diverso dal loro. Arrivai con un dottorato di ricerca, vivevo nella casa dello studente, nel cosiddetto obshezhitie. Avevo una stanzetta con il bagno in comune e mangiavo nella mensa dell'università, che, a mio giudizio, non era per niente male. Da straniero, conducevo una vita tutto sommato privilegiata, nonostante avessi gli occhi delle autorità sempre puntati addosso».

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A Mosca, attirò l'attenzione di Boris Pasternak che gli raccontò di avere avuto uno scontro con segretario dell'Unione Scrittori, Surkov. Fu a quel punto che Strada «apprese dell'esistenza del Dottor Zivago. Il manoscritto era giunto in Italia e Surkov voleva impedirne la pubblicazione». Pasternak si affidò completamente a quel giovane studioso italiano, chiedendogli «che tornando in Italia dicessi a Feltrinelli di non tener conto del telegramma in cui lo scrittore si opponeva alla pubblicazione del romanzo. Dia invece questo messaggio, mi disse: "Il Dottor Zivago è il libro della mia vita e voglio a tutti i costi che esca!". Intuì che non lo avrei tradito».

Questo era Vittorio Strada, scomparso oggi all'età di 88 anni. Di lui si ricordano molte imprese intellettuali, quali l'aver fondato la rivista internazionale «Rossija/Russia», ideato la Storia della letteratura russa in sette volumi, edita da Fayard in Francia e parzialmente in Italia da Einaudi, e partecipato a varie iniziative culturali in Italia e all’estero. Oltre all'insegnamento all’Università di Venezia e alla direzione l’Istituto Italiano di Cultura a Mosca.

L'ultimo lavoro di Vittorio Strada ha un titolo emblematico e tagliente: Il dovere di uccidere (Marsilio, 2018). È un'analisi che va alle radici di quella che oggi si chiama la psiche e, un tempo, si sarebbe chiamata la mentalità terrorista. Chi è il terrorista? Qual è il suo mondo interiore? Cos’ha di diverso dal soldato e dal criminale? Per Vittorio Strada tutto si compie nella Russia della seconda metà del XIX e l'inizio del xx secolo: qui la violenza sposa il nichilismo e il settarismo. E diventa laboratorio per un uomo nuovo, sfigurato dalla crudeltà.

Con Vittorio Strada se ne va un uomo che ci ha guidato, con spirito davvero libero, attraverso quel grande enigma che ha nome Russia.


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