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Intelligenza artificiale, qui ci vuole un pensiero

L'editoriale di Riccardo Bonacina che apre il numero in distribuzione da mercoledì prossimo: «Se l’AI prenderà piede, non dovrà farlo a discapito dell’uomo. La tecnologia, lontano dal catastrofismo, potrà aiutare moltissimo la società. Ma va orientata e va pensata. Non può, in quanto mezzo, darsi fini da sé. I fini le devono venire da fuori. Dall’uomo, appunto»

di Riccardo Bonacina

​Tutto ciò che è tecnicamente possibile prima o poi accade. Ma non tutto ciò che accade ci fa bene ed è per noi. Per questo va gestito. La questione etica e sociale è tutta in questa possibilità di gestire, per non essere gestiti. Sapendo che le tecnologie emergenti stanno davvero riconfigurando le relazioni umane, i rapporti sociali, le idee stesse di reciprocità, di dono, di cura e di scambio. Fra queste tecnologie, la più radicale per il suo impatto sulla vita quotidiana, in termini di lavoro, salute, ma soprattutto per l’idea di umanità o disumanità che veicola sembra essere rappresentata da quel progetto di innovazione e ricerca che passa sotto il nome di Intelligenza Artificiale (Artificial Intelligence). Che muove da un’idea: la mente dell’uomo — e, in definitiva, l’uomo stesso — non è che un aggregato di computazione e calcolo e, come tale, è replicabile. Gli algoritmi invasivi che sempre più determinano e regolano i nostri ritmi di lavoro e di vita sono un esempio di come la tecnologia non è mai neutra: parte sempre da una visione del mondo. E ogni visione del mondo è, inevitabilmente, una visione dell’uomo.

Nel caso dell’Intelligenza artificiale, la visione (dell’uomo e del mondo) parte da una concezione radicalmente riduzionistica della mente e della coscienza. Considera l’uomo come un aggregato di automatismi e potenza di calcolo: ma poiché questa potenza nella macchina è, inevitabilmente, più veloce e più grande allora finisce per considerare l’uomo subalterno alla macchina. Che ne sarà dell’uomo, se l’uomo consegnerà le chiavi del suo mondo a software e algoritmi di Intelligenza artificiale, che replicano l’arroganza della biblica Torre di Babele? La profezia è stata delineata chiaramente dal grande astrofisico Stephen Hakwing, che a questo proposito osservava: «Se vorremo costruire macchine capaci di apprendere e di modificare il comportamento in base all’esperienza, dovremo accettare il fatto che ogni grado di indipendenza fornito ad esse potrebbe produrre un uguale grado di ribellione nei nostri confronti. Una volta uscito dalla bottiglia, il genio non avrà alcuna voglia di ritornarci, e non c’è motivo di aspettarsi che le macchine siano ben disposte verso di noi. In breve, solo un’umanità capace di rispetto e deferenza sarà capace di dominare le nuove potenzialità che ci si aprono davanti. Possiamo adottare un atteggiamento umile e condurre una vita buona con l’ausilio delle macchine, oppure possiamo adottare un atteggiamento arrogante e perire».

Il nostro dovere non è solo pensare, ma pensare fino in fondo. Per questo, per capire ciò che ancora non riusciamo a capire ci siamo rivolti a un vero maestro: Roger Penrose (il prof che incoraggiò proprio Stephen Hakwing a Cambridge e di cui diventò collega). Vita, grazie a un gruppo di lavoro che vede coinvolto il nostro Marco Dotti, a cui questo editoriale deve molto, insieme all’economista Marcello Esposito e al fisico Fabio Scardigli, ha chiesto a Penrose di spiegare, in una conferenza pubblica che unirà rigore e passione, rivolta a tutti e non solo agli specialisti, perché l’uomo è ben più che potenza di calcolo, è tensione all’infinito. L’uomo, ci spiegherà Penrose il 12 maggio, in un incontro di eccezionale portata internazionale al Centro Congressi Cariplo di Milano, è intuizione, sorpresa, scarto laterale: non calcola, pensa. Non computa, ma si rapporta all’altro. E con l’altro. Questo lo fa uomo. A sir Roger Penrose, professore emerito a Oxford, abbiamo chiesto un aiuto: come pensare, oggi, con quell’atteggiamento umile invocato da Hawking una possibile mediazione con la rivoluzione tecnologica prossima ventura? Come porci nel mezzo e gestire con sano pragmatismo ciò che accade, abbandonando inutili entusiasmi e altrettanto inutili paure?

Se l’AI prenderà piede, non dovrà farlo a discapito dell’uomo. La tecnologia, lontano dal catastrofismo, potrà aiutare moltissimo la società. Ma va orientata e va pensata. Non può, in quanto mezzo, darsi fini da sé. I fini le devono venire da fuori. Dall’uomo, appunto. La tecnologia, e in particolare l’AI, impatterà — questo è certo — sul mondo del lavoro, in termini di occupazione. Sulla sanità, in termini di relazione. Sulla scuola, in termini di educazione e apprendimento. Il tema è fondamentale, per la tenuta della nostra società e pensarlo è urgente. Come ha recentemente sottolineato Emmanuel Macron parlando al Collège de France: «Finché la tecnica serve il bene comune non ci sono problemi. Ma le innovazioni radicali non devono corrompere l’esigenza democratica. Dobbiamo garantire un dibatto democratico e indipendente, favorendo quella mediazione che solo una società civile consapevole dei propri compiti e dell’urgenza di ripensare il presente può ancora garantire»

Solo il sociale può orientare questo processo di innovazione. Il sociale è chiamato a un grande compito: non rifiutare apocalitticamente le tecnologie (sarebbe folle); non accettarle aprioristicamente (sarebbe stupido). Ma pensare. Perché il pensiero vince sempre sulla macchina.


Credit foto: Franck Veschi/Unsplash


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