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Emergency compie 24 anni: «La nostra è una sfida culturale»

L'ong festeggia con una tre giorni (15-16-17 maggio) nella sede di Milano. Rossella Miccio è al timone della ong fondata da Gino Strada da meno di un anno: «Abbiamo vissuto tanti cambiamenti e ampliato le nostre attività. Ma le direttrici sono sempre quelle: cura e cultura di pace. Negli anni abbiamo imparato che spesso è più facile lavorare in Paesi in guerra che in Italia». L'addio di Cecilia Strada? «Nulla da commentare»

di Lorenzo Maria Alvaro

Nata il 15 maggio del 1994, a Milano, con lo scopo di portare aiuto alle vittime civili delle guerre e della povertà Emergency compie oggi 24 anni. Da allora la ong è intervenuta in 18 Paesi, costruendo ospedali, centri chirurgici, centri di riabilitazione, centri pediatrici, posti di primo soccorso, centri sanitari, ambulatori e poliambulatori, ambulatori mobili, un centro di maternità e un centro cardiochirurgico. Per festeggiare la ricorrenza è stata organizzata una tre giorni di incontri, mostre, teatro e musica a Casa Emergency la sede costruita nel 2017 nel capoluogo meneghino. Per fare un punto sull'esperienza umanitaria della raltà fondata da Gino Strada abbiamo parlato con la presidente Rossella Miccio. L'intervista


Questi primi ventiquattro anni come vi hanno visto cambiare nella struttura e nell'impegno?
Siamo nati con l'idea di rispondere ad un bisogno urgente e immediato curando i feriti di guerra, in particolare dalla piaga delle mine anti-uomo. Per cui iniziammo a lavorare in Rwanda, nord Iraq, Cambogia e Afghanistan. Nel tempo ci siamo accorti che le vittime di guerra non erano soltanto i feriti da arma, ma anche tutti coloro che a causa della guerra si vedevano negato il diritto alla salute. E così abbiamo cominciato ad ampliare l'attività dei nostri ospedali con servizi più tradizionali come la ginecologia, la pediatria e la chirurgia traumatologica. Un modo per andare incontro alle esigenze delle fasce più deboli delle popolazioni. Frequentando la guerra abbiamo capito anche tante altre cose. In primo luogo che è fondamentale divulgare una cultura della pace. Solo abolendo la guerra possiamo immaginare un futuro diverso per l'umanità. È per questo che oggi il nostro impegno è strutturato su questi due fronti: da un lato la cura, dall'altro la cultura. E poi che la platea delle vittime della guerra è amplissima e comprende anche chi fugge, come i migranti.

A questo proposito cosa pensa del clima che si è creato intorno all'impegno delle ong che salvano i profughi nel Mediterraneo?
Noi lo diciamo dall'estate scorsa, da quando è cominciata questa campagna d'odio. Ci sembra un assurdità la criminalizzazione della solidarietà. Ci sembra di vivere una sorta di incubo. Un Paese in cui vige uno stato di diritto ed è stato fatto del Terzo settore uno dei pilastri della struttura sociale decide per convenienza politica di perseguire chi salva vite umane. È una follia.

Che cosa si può fare perché le cose cambino?
Bisogna cominciare ad affrontare i problemi per quello che sono e non strumentalizzandoli. Recuperare il senso di umanità rimettendo le cose nelle giuste proporzioni. La vita umana è la prima cosa e va tutelata in ogni contesto e in ogni situazione. Ripartendo da qui potremo immaginare di cambiare la narrazione, la visione e le politiche. Non è un problema di regole ma di cultura.

Se dovessimo fotografare questi anni in numeri?
Siamo intervenuti in 18 Paesi, Italia compresa, costruendo ospedali, centri chirurgici, centri di riabilitazione, centri pediatrici, posti di primo soccorso, centri sanitari, ambulatori e poliambulatori, ambulatori mobili, un centro di maternità e un centro cardio-chirurgico. Dalla sua nascita ad oggi Emergency ha curato gratuitamente oltre 9 milioni di persone.

A proposito di Italia il 2017 ha visto la nascita della vostra sede, Casa Emergency, a Milano…
Sì, abbiamo costruito una casa ospitale e aperta a tutti. Non è una struttura di cura ma è un luogo di cultura. Lì, è vero, abbiamo i nostri uffici e gestiamo i nostri ospedale. Ma la maggior parte degli spazi sono dedicati al dialogo e all'organizzazione di eventi culturali.

Come la vostra festa di compleanno…
Esatto, da martedì a giovedì abbiamo organizzato un evento fatto di incontri, mostre e musica.

Ci sono altri appuntamenti in agenda a Casa Emergency?
Il 26 maggio abbiamo organizzato un incontro con dei professionisti dedicato al design per il sociale. È rivolto ai giovani e vuole raccontare un modo concreto ed etico di fare design. All'interno della giornata ci sarà anche un concorso. Vogliamo affrontare il tema del Design in senso lato, dalle protesi fino all'arredamento.

Non sono mancate in questi anni anche alcune polemiche. La più recente è l'abbandono della ong da parte di Cecilia Strada. Cos'è successo?
Non c'è nulla da commentare. È stata una scelta dell'associazione quella di avvicendare la presidenza. La cosa fondamentale è quello che facciamo e come lo facciamo. Che non dipende da chi è al timone di Emergency.

Come immaginate i prossimi 24 anni?
Dove andremo lo determina purtroppo la quotidianità. Ci sono sempre più guerre e quindi continueremo a lavorare tanto nei contesti di conflitto. Per questo è importante superare la logica della guerra. Nel contempo vorremmo riuscire a lavorare sempre di più sul fronte culturale. Stiamo già costruendo nuove strutture. Una in particolare, disegnata da Renzo Piano, sorgerà ad Entebbe in Uganda e sarà una chirurgia pediatrica. È immaginata come punto di riferimento per tutta la regione. In quel luogo faremo anche formazione oltre che cura per provare a dare la possibilità al Paese di andare avanti sulla sanità con le proprie gambe.

E in Italia, dove crescono le diseguaglianze, le nuove povertà e il bisogno di welfare avete nuovi progetti?
Sì, naturalmente. È un ambito su cui siamo impegnati ormai da 11 anni. Abbiamo iniziato nel 2006. Stiamo cercando di ampliare le nostre attività. Abbiamo iniziato a lavorare nelle zone del terremoto del Centro Italia, vicino Teramo e Macerata, dove abbiamo incontrato una situazione di disagio fortissima. Basti pensare che proprio ieri è crollato il tetto di una scuola considerata agibile. Sono popolazioni abbandonate che dobbiamo accompagnare e aiutare. Stiamo provando da tempo ad iniziare a lavorare su Roma e ci piacerebbe tornare in Puglia. Ma stiamo vivendo grande fatica. Lavorare in Italia a volte è più complicato e difficile che lavorare in Afghanistan. Burocrazia e difficoltà a trovare interlocutori sono la normalità. E poi non esiste un sistema sanitario unico ma ogni Regione fa a modo proprio. Confrontarsi con questa moltitudine di realtà mette in difficoltà in primo luogo gli utenti ma anche chi cerca di aiutare come noi.


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