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La cultura? Sia il motore della rigenerazione economica e sociale

L’intervista al presidente di Assifero Felice Scalvini in occasione del Convegno Nazionale dell’associazione. «Solo attraverso la conservazione, il sostegno e la diffusione di un patrimonio culturale ricco ed evoluto si riescono a innescare trasformazioni profonde di medio e lungo periodo»

di Vittoria Azzarita

In vista della tavola rotonda “La Filantropia è cultura. Cultura e rigenerazione economica e sociale oggi”, che si terrà il 25 maggio presso la Fondazione Exclusiva in occasione del Convegno Nazionale di Assifero proponiamo un’intervista a Felice Scalvini presidente di Assifero e assessore con delega alle Politiche per la Famiglia, la Persona e la Sanità presso il Comune di Brescia secondo cui «il mondo della filantropia deve prendere coscienza di quanto sia fondamentale occuparsi di cultura in generale, ma anche attraverso specifici interventi operativi, perché è solo attraverso la conservazione, il sostegno e la diffusione di un patrimonio culturale ricco ed evoluto che si riescono a innescare trasformazioni profonde di medio e lungo periodo». L’intervista.


Il prossimo 25 maggio, in occasione del Convegno Nazionale di Assifero, si terrà la tavola rotonda aperta al pubblico dal titolo “La Filantropia è cultura. Cultura e rigenerazione economica e sociale oggi”, volta a riflettere sul valore della cultura come linea strategica di investimento per le organizzazioni filantropiche. Perché avete deciso di approfondire questo tema? In che modo, dal suo punto di vista, è possibile stimolare un maggiore interesse del settore filantropico verso la cultura come agente di cambiamento sociale?
Dal nostro punto di vista che la cultura sia un agente di cambiamento sociale è quasi un assioma, ossia è un qualcosa che non ha bisogno di ulteriori dimostrazioni. Pensiamo che la cultura, o meglio le culture siano ciò che danno l'imprinting alla società. Tuttavia il tema centrale è “quale cultura” o “quali culture”, in termini di valori civili, etici, filosofici e democratici, è necessario promuovere in un momento in cui si rischia di navigare a vista rispetto a queste tematiche. Chi ha scelto, dentro il tessuto sociale, di sostenere i buoni orientamenti deve anche interrogarsi sui presupposti culturali di tali orientamenti per capire in che modo, rispetto a questi temi, si possono compiere delle scelte affinché la cultura sia usata per una trasformazione migliorativa, e non regressiva, della società. In quest'ottica, l'autonomia privata consapevole deve essere stimolata, direi quasi provocata e sollecitata a prendere coscienza di quanto sia fondamentale occuparsi di cultura in generale, ma anche attraverso specifici interventi operativi, perché è solo attraverso la conservazione, il sostegno e la diffusione di un patrimonio culturale ricco ed evoluto che si riescono a innescare trasformazioni profonde di medio e lungo periodo.

In qualità di Presidente di Assifero, qual è il principale contributo dell'Associazione al settore della filantropia istituzionale italiana?
Innanzitutto ne abbiamo permesso l'identificazione. Prima della nascita di Assifero il termine filantropia istituzionale non esisteva e sappiamo bene che le cose per esistere devono avere un nome e devono avere un riferimento. Affermando che noi volevamo essere il punto di riferimento della filantropia istituzionale in Italia, abbiamo fatto sì che i soggetti che si riconoscevano in questo profilo identitario iniziassero ad auto-riconoscersi, auto-identificarsi e a ritrovarsi. Questa operazione ha avuto dei tempi significativi, in quanto Assifero esiste da 14 anni, ma ha portato anche alla istituzionalizzazione del settore filantropico con il riconoscimento degli enti filantropici all'interno del Codice del Terzo Settore. Un riconoscimento che solo una decina di anni fa – quando Assifero muoveva i primi passi – era completamente inimmaginabile. Direi che fino ad ora questo è stato il nostro principale contributo ed è stato possibile perché Assifero è stato, ed è sempre di più, un luogo di incontro e di azione collettiva, di costruzione di identità e soprattutto di progettualità comuni e di riflessioni circa il miglioramento della qualità del lavoro di ciascun associato.

Volendo fare un bilancio, quali sono stati i cambiamenti più significativi che hanno caratterizzato le istituzioni filantropiche nel corso degli ultimi anni?
Quello che vedo è un processo di progressiva e sempre più convinta focalizzazione: c'è chi è un profondo conoscitore del proprio territorio, come le fondazioni di comunità; chi sceglie di specializzarsi nella ricerca medica e scientifica; chi, come le fondazioni d'impresa, si focalizza su tematiche spesso contigue al settore d'attività dell'azienda di riferimento; chi decide di compiere scelte, anche ardite, ponendosi sul fronte dell'innovazione. Questa progressiva focalizzazione passa anche attraverso il fatto di incorporare know-how, esperienza, capacità critica, capacità valutativa e orientante nei diversi settori. Questo secondo me è il futuro su cui bisogna puntare ed è auspicabile, per le considerazioni di apertura, che uno dei settori su cui concentrarsi nei prossimi anni sia proprio quello della promozione e dello sviluppo di iniziative culturali.

Nonostante l'agire insieme per uno stesso fine sia visto, almeno a livello teorico, come un modo per massimizzare l'impatto della filantropia, nella pratica i comportamenti collaborativi sono ancora poco diffusi. In che modo è possibile favorire una più intensa cooperazione sia all'interno del settore filantropico che tra istituzioni filantropiche e altri ambiti d'attività?

Ci vuole molta pazienza perché le organizzazioni filantropiche sono entità che godono di una certa autosufficienza e quindi non hanno né l'urgenza né l'esigenza – come, invece, accade in altri ambiti – di fare squadra per poter difendere il proprio operato, per potersi promuovere e per veder riconosciuto il proprio valore e i propri interessi. Ma questo è vero solo in parte perché, in realtà, ogni organizzazione nel formulare i propri programmi dovrebbe interrogarsi anche su cosa può fare insieme agli altri e sulle modalità migliori per rendere effettiva tale collaborazione. Questo è un processo lento però mi sembra che, almeno dentro Assifero, anno dopo anno una simile prospettiva stia acquisendo una velocità sempre maggiore. Credo che nel giro di quattro o cinque anni sarà una pratica molto più diffusa tra i nostri associati.

Le fondazioni di comunità stanno emergendo, non solo in Italia, come un settore in espansione. Quali sono, secondo lei, i principali punti di forza e di debolezza di tali istituzioni?
I punti di forza sono anche le principali criticità di tali istituzioni, nel senso che una fondazione di comunità trae linfa dal proprio territorio di appartenenza, alimenta quel territorio, ma ne incorpora anche le complessità e i limiti. Il lavoro di sviluppo comunitario è un lavoro non semplice e le comunità territoriali sono realtà che hanno al loro interno molte diversità. Il lavoro portato avanti delle fondazioni di comunità è importante non soltanto perché questi enti raccolgono e ridistribuiscono risorse all'interno della loro comunità di riferimento, ma soprattutto perché sfidano i loro territori a imparare il metodo della collaborazione e dello sviluppo partecipato. Tale effetto è un portato di natura più culturale che economica ed io ritengo sia questo il principale valore aggiunto di questo tipo di istituzioni.

Presidente Scalvini, lei è uno dei protagonisti della riforma del Terzo settore. A che punto siamo? Cosa manca per rendere pienamente effettivo il quadro d'azione delineato dal nuovo Codice? Teme che l'attuale situazione politica italiana possa in qualche modo frenare o rallentare il percorso appena intrapreso?
Siamo a buon punto. Adesso è necessario che i soggetti interessati dalla Riforma del Terzo Settore la sposino totalmente e ne condividano la prospettiva strategica, che è quella di aver definito, oltre allo Stato e al mercato, un terzo ambito sociale ed economico specifico. Sposare completamente la Riforma significa non solo cercare di capire quali sono le piccole utilità di breve periodo che essa determina per ogni soggetto, ma soprattutto interpretare al meglio questa condizione variegata – perché vari sono gli enti, dalle organizzazioni di volontariato alle cooperative, alle imprese sociali, agli enti filantropici – di terzietà rispetto alla pubblica amministrazione e al mercato. Una terzietà che è frutto dell'ibridazione di due dati costitutivi degli altri due poli: da un lato, la natura privata che è tipica dell'area delle organizzazioni for profit e di quello che viene comunemente definito mercato; dall'altro, la finalizzazione allo svolgimento, senza finalità di lucro, di attività di interesse generale che è, invece, tipica del settore pubblico. Questa chiarezza di visione rappresenta l'essenza di una cultura evoluta nel Terzo Settore sulla quale bisogna continuare a lavorare. Riguardo al quadro politico attuale, nei vari programmi non ho letto nessuna ostilità nei confronti di questo processo, per cui spero che non emergano limitazioni o rallentamenti futuri.

Un argomento che continua a suscitare forte interesse è quello della valutazione dell'impatto sociale generato dai soggetti del Terzo settore. Secondo lei è un'opportunità oppure un ostacolo?
Credo che la valutazione sia essenziale, ma sia uno strumento da maneggiare con attenzione. L'idea che possa essere misurato quantitativamente l'impatto sociale mi sembra adattabile a poche situazioni. E poi mi piacerebbe che coloro che per intervenire reclamano la misurazione dell'impatto sociale da parte dei destinatari delle loro risorse, dicessero per primi quali sono i metodi e gli strumenti con cui valutano il proprio impatto sociale. Perché, a parer mio il problema principale è quello della valutazione delle politiche degli enti, più che dei singoli progetti. In questo senso, forse la prima politica da valutare nella sua effettiva positività dovrebbe essere proprio la politica dell'affermazione dell'impatto sociale. Non è da escludere che, probabilmente, sulla base di un'analisi rigorosa, ne uscirebbe fortemente ridimensionata.

Il rapporto con le pubbliche amministrazioni, soprattutto nell'ambito del welfare, resta un punto d'azione cruciale per le fondazioni. Qual è la sua opinione a riguardo?
Nell'ambito del Codice del Terzo Settore vi è un articolo non esplorato appieno, anzi forse ancora un po' negletto soprattutto dai soggetti della filantropia istituzionale. Si tratta dell'articolo n.55 che regola, in modo assolutamente innovativo, direi quasi rivoluzionario, i rapporti tra Stato ed enti del Terzo Settore. L'articolo n.55 è il primo articolo realmente applicativo del principio di sussidiarietà e, se correttamente interpretato e applicato – facendo sì che la pubblica amministrazione operi come il soggetto che chiama a raccolta le risorse della società civile, le riconosce, le sollecita, le sostiene e le promuove – può rappresentare veramente l'elemento più innovativo e prospetticamente più positivo di tutto il Codice del Terzo Settore, non solo nell'ambito del welfare.

Qualche giorno fa è stato presentato il nuovo Rapporto Annuale sulla situazione del Paese dell'Istat, che quest'anno ha scelto di analizzare le caratteristiche e le condizioni dell'Italia attraverso la chiave di lettura delle reti, intese nella loro accezione più ampia, quali strutture fatte di nodi e relazioni tra persone, tra persone e attori sociali (imprese, istituzioni, gruppi formali e informali) e tra attori sociali. A tal proposito, quali sono i vantaggi derivanti dal sistema delle relazioni di solidarietà, aiuto reciproco e collaborazione sia a livello individuale che collettivo?
Il fatto che le reti siano fondamentali per le condizioni di vita di ciascuno e per lo sviluppo del tessuto economico e sociale è un dato appurato ormai da molto tempo. Tuttavia è abbastanza recente lo studio e la costruzione di una teoria generale delle reti. Per quanto ci riguarda, come Assifero abbiamo cercato di costruire la nostra rete con la consapevolezza che le reti sono fatte di nodi e che i nodi non si sviluppano casualmente. Assifero ha avuto, e ha tuttora, l'obiettivo di essere un nodo consapevole, costruito con una metodologia, con una visione, con una convinzione e anche con una determinazione robuste in modo da diventare un nodo solido. Come tutti i nodi all'interno di una rete ha il duplice problema di capire come “annodarsi” ad altri nodi e come generare altri nodi, tenendoli però sempre collegati tra di loro. Nell'ambito del Terzo Settore complessivamente inteso questo è uno dei problemi da affrontare nell'immediato, ossia capire qual è il modo migliore di collegare i diversi nodi esistenti, affinché sia possibile costruire una rete capace di sostenere lo sviluppo non solo delle organizzazioni non profit ma del nostro Paese.

Per concludere, quali sono gli obiettivi principali di Assifero per i prossimi anni?
Prima di tutto crescere sul piano associativo. C'è una realtà diffusa di enti filantropici che noi stiamo scoprendo e intercettando piano piano e progressivamente, anche perché molto spesso sono legati a vicende individuali e a specifici territori. Il nostro intento è quello di riuscire a fornire a questo mondo la consapevolezza e la possibilità di poter rappresentare un settore trasformativo rispetto all'evoluzione complessiva della società e dell'economia nel nostro Paese. Siamo convinti che la filantropia istituzionale abbia tutti i requisiti per attivare le leve più opportune, ma per farlo deve imparare a decifrare meglio quali sono le risorse di cui dispone e a metterle in campo con professionalità, consapevolezza e lungimiranza e soprattutto deve acquisire la capacità di lavorare insieme. Facilitare questi processi è quello che facciamo, e che continueremo a fare, come punto di riferimento della filantropia istituzionale in Italia.



Da Il giornale delle fondazioni


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