Welfare & Lavoro

Adozioni e origini: sapere tutto o capire il senso?

Marco Chistolini a EurAdopt: «Non basta sapere, occorre capire. Dire che se non si hanno tutte le informazioni sulle proprie origini non si può essere una persona completa, non aiuta chi quelle informazioni non le può avere, per mille ragioni. Le tessere del puzzle servono per comporre l’immagine, ma possiamo comporre un’immagine di senso anche se mancano alcune tessere. Il viaggio di ritorno è un aiuto per costruire questa cornice di senso»

di Sara De Carli

«Non basta sapere, occorre capire. Avere informazioni è necessario ma insufficiente, dobbiamo averla chiara questa cosa, altrimenti rischiamo di prendere una strada che non è utile ai ragazzi adottati. Se diciamo che se non si hanno tutte le informazioni sul proprio passato e sulle proprie origini non si può essere una persona completa, non aiutiamo tutte le persone che quelle informazioni non le possono avere, per un motivo o per l’altro. Le tessere del puzzle servono per comporre l’immagine, ma possiamo comporre un’immagine di senso anche se mancano alcune tessere. L’adozione è l’integrazione di diverse parti di sé e l’integrazione si articola su due piani, un piano di realtà (conoscere, avere informazioni e dati reali) e uno interno, della comprensione, dell’attribuzione di senso. Il viaggio di ritorno alle origini si colloca in questa cornice di senso»: così Marco Chistolini, psicologo e psicoterapeuta, responsabile scientifico del Ciai, ha introdotto oggi – durante la XIII Conferenza Internazionale di EurAdopt – la sua riflessione sui Viaggi di Ritorno nel paese di Origine, un’esperienza che Ciai propone fin dal 1980.

Quali sono le precondizioni necessarie per progettare un’esperienza forte come un viaggio di ritorno? Cinque elementi, secondo Chistolini: l’età dell’adottato, che deve avere almeno 8-10 anni; che siano trascorsi un po’ di anni dall’adozione, in modo che il rapporto adottivo si sia cementato, «altrimenti si rischia la paura che “torniamo lì e mi lasciate lì”»; il desiderio di andare, sembra banale ma non lo è; un equilibrio complessivo, «il VRO non può essere la risposta a una crisi adottiva, non è un viaggio della speranza»; la preparazione, perché è esperienza complessa.

La modalità scelta dal Ciai prevede un viaggio di gruppo, con uno psicologo e un operatore, alla riscoperta del Paese e con visite agli istituti dove i bambini erano stati accolti: «non è previsto il contatto con famiglie biologiche, anche se questo paletto oggi meno sfumato, sono successi anche incontri con le famiglie biologiche ma questo non è un obiettivo». Il primo viaggio di ritorno risale al 1980, complessivamente ne sono stati fatti 13, con oltre 300 partecipanti: quest’estate ce ne sarà uno in Ecador. Ciai inoltre fornisce assistenza psicologica e organizzativa a chi vuole andare da solo.

Su questi viaggi è stata fatta una ricerca. Che ha rivelato come a desiderare il VRO siano molto più i genitori adottivi che i ragazzi adottati. E i genitori ancora più dei figli, dopo il primo viaggio pensano di ritornare. La gran parte degli adottati (circa il 73%) durante il viaggio si è sentito molto o moltissimo diverso dalle persone di quel Paese, anche se la percentuale di risposte sul senso di appartenenza sia all’Italia sia al Paese di origine cambia di pochissimo dopo il viaggio: andare non modifica in sostanza il senso di appartenenza all’Italia o al paese di origine. La famiglia, presente, per oltre l’87% dei ragazzi è stata fondamentale e certamente non è ostativa rispetto alla possibilità di vivere le emozioni, è vissuta anzi come risorsa. Tre quarti dei ragazzi dicono di essersi sentiti più vicini alla famiglia. Per il 100% di chi ha partecipato alla ricerca, il VRO è stato utile.


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