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Testimonial, quando un volto vip funziona e quando no

Il sodalizio tra celebrità e non profit è un classico delle raccolte fondi. Eppure non sempre il risultato è quello che ci si attende. Sul numero di VITA in distribuzione abbiamo analizzato il fenomeno con Francesco Quistelli, fundraisier di lungo corso e docente di fundraising in Bocconi. «Non esiste una regola assoluta tra il successo di un’organizzazione e l’utilizzo del testimonial. Di certo pianificazione e strategia aiutano a non sbagliare»

di Lorenzo Maria Alvaro

Il legame tra vip e sociale è un classico del fundraising. L’idea del testimonial nasce nel 1875 nell’ambito pubblicitario, in particolare legato alla reclamizzazione di prodotti medicinali. Il senso è rimasto sempre lo stesso: la figura di un testimone che con il sorriso, la competenza dimostrata e le qualità morali di cui è implicitamente portatore, garantisce personalmente in merito alla bontà di ciò che viene proposto al pubblico. Eppure questa forma di comunicazione oggi, nell’ambito del Terzo settore, non sempre sembra funzionare come ci si aspetterebbe.

Un grande successo è stato il matrimonio nato nel 1989 tra Lega del Filo d’Oro e Renzo Arbore. «Sono uasi 30 anni che è il nostro testimonial», racconta il segretario generale Rossano Bartoli, «e ormai è diventato uno di noi. Se dovessi identificare le caratteristiche che hanno reso questo connubio vincente direi proprio che sono la grande partecipazione e immedesimazione che Arbore vive con la Lega».

Uno dei flop più celebri è stata la campagna di Famiglie Sma che si è avvalsa del volto di Checco Zalone. Un caso scuola che, a fronte di un boom da 2,5 milioni di visualizzazioni sui social, ha garantito donazioni per meno del 10% di quanto l’associazione si fosse prefissata (circa un milione di euro).

Secondo Francesco Quistelli, fundraisier di lungo corso e docente di fundraising in Bocconi, «non esiste una regola assoluta tra il successo di un’organizzazione e l’utilizzo del testimonial. Per alcune organizzazioni il testimonial è stata una vera fortuna. Penso ad Amref con Giobbe Covatta o a Lega del Filo d’Oro con Renzo Arbore ma anche a Veronesi per la sua Fondazione». La vera differenza è «nell’analisi e pianificazione strategica», sottolinea Quistelli, «si devono capire gli obiettivi e l’oggetto dell’eventuale utilizzo di un testimonial all’interno della strategia generale di comunicazione e raccolta fondi».

Ogni tipologia di campagna richiede un volto che risponde a caratteristiche stringenti. «Per l’ambito istituzionale deve essere strutturale alla notorietà del brand, con un approccio di lunga durata, capace di identi carsi con la causa e fare identi care la causa», mentre per una campagna ad hoc «è meglio optare piuttosto che per un testimonial su un ambasciatore, un volto strumentale a un progetto speci co, con un rapporto di breve-medio periodo e capace di avere un impatto immediato sui target di riferimento della campagna».

C’è poi lo snodo delle modalità di comunicazione. «Se quello che mi serve è una voce, che sia per la radio, la tv o il web, cercherò qualcuno che sia adeguato a quel mezzo. Lo stesso vale nel caso dell’immagine (campagna stampa, direct marketing, web) o per il “positioning” (nelle trasmissioni in diretta, nel lm recitato, nelle gare sportive).

Nella scelta ci sono poi altri elementi chiave da considerare. «Analizzando il caso Arbore possiamo dire che, in primo luogo, il coinvolgimento è direttamente proporzionale alla potenziale disponibilità, credibilità e competenza che creano un rapporto causa-testimonial capace di stimolare una percezione positiva da parte del target. Poi c’è il tema della durata: più è longeva più genererà identi cazione con la causa. In ne la coerenza del personaggio col target dei donatori».

La formula vincente come sempre è nella pianificazione elemento chiave del fundraising. «Non pianificare può diventare anche un boomerang: una delle casistiche più comuni è che l’organizzazione si faccia prendere dall’entusiasmo lasciando guidare al testimonial la relazione. Questo produce un distacco rispetto alla missione. Un altro caso è quello in cui il volto scelto oscuri l’organizzazione. Un rischio che esiste anche nel profit e diventa ancora più grande quando si ha che fare con brand poco conosciuti come spesso sono quelli delle onlus».


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